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giovedì 10 luglio 2008

La mia infanzia


L'ho trovata sul corriere. Mi ricorda sempre i misteri della mia infanzia. La campagna, gl'alberi e la notte del buio che non faceva paura. Quella casa nel fondo tra le due bocche la conosco, dietro c'è l'argine, il Piave. Nella mia infanzia c'erano anche loro, quelli che hanno il copyright sulla foto.
Ad una festa de l'Unità, appena dopo il concerto dell'89, mio zio con altri ventenni perparavano lo stand di frasche quasi dedicato ai Pink Floyd, mentre io ancora guardavo i vinili con sospetto come fossero dei dischi volanti. Aspettavo di rimaner solo, arrampicarmi sul giradischi e provare a far girare quella cosa nera che magicamente mi chiudeva gli occhi e mi portava dappertutto.
Ero piccolo, alla festà de l'Unità le signore addette al fritto mi regalavano le patatine per via dei miei capelli biondo platino e perché che caruccio che sei mangia qua... e The Wall mi spaventava. Non ci capivo nulla. Le immagini sull'album di cartone uscivano da un incubo, ma non gli resistevo.

domenica 29 giugno 2008

Polvere di Partito Democratico

Esuberi Alitalia: "Quattromila tagli? Visto come stanno le cose, rischia di essere una stima troppo prudenziale", rassicura Banca Intesa.
Ora, a me potrebbe non fregare nulla, non fosse che molte famiglie si troveranno col sedere a terra e anche se non le conosco m'immagino assurde scene di stenti familiari a tavola e pazienza se è necessario tagliare. Mi dico che comunque ho visto troppi film di De Sica senior. Non fosse poi che nessuno dice: "Berlusconi, adesso le castagne dal fuoco le togli tu! Altrimenti a casa! A casa! perchè sei un gran cacciaballe opportunista."
Quanti esuberi prevedeva il piano Air France che ha mandato a monte insieme ai sindacati? Poco più della metà.
Veltroni e compagni, cacciate fuori le balle per favore. Saranno lessate ormai, diamogli aria.
Ma non possono sentirmi, penso questo, mi armo come posso per la battaglia e nella posta trovo un mail dal titolo "Per un PD unito". Potrebbe venire dall'alto come dal basso, ormai sono frantumi che piovono e cocci che nessuno raccoglie, anzi gode e calpesta, ma sta volta viene dal basso piuttosto basso, Treviso.
Lo stesso posto descritto da un servizio del Venerdì di Repubblica come il paradiso del sesso libero e spensierato. A quanto pare i falli spezzati sono all'ordine del giorno e li chiamano tra dottori, "chiodi piegati" se non ricordo male. E' il posto dove il benessere è tanto palpabile che una ragazzina chiusa nel cesso della scuola, vende mms delle sue parti intime appunto per palpare un vestito di Armani. Lo stesso luogo dove la Lega Nord impera, non divide e un motivo ci sarà. E non credo sia una questione di libertà sessuale.
Consiglierei ai dirigenti e no del mio piccolo partito locale che è giunta l'ora di votare tutti Lega per non perdere altro tempo, almeno potranno ragionare meglio sul da farsi, su cosa saremo, mentre altri fanno anche per noi, qualunque cosa facciano. E nascostamente, all'ombra di quel che penseranno suore e preti di cui pure a Treviso s'abbonda, scopare di più. Forse toccherebbero più realta nelle favole che dentro le loro discussioni personali. Nel mio piccolo m'impegnerò su questa strada come posso.
Erano Ds, si sbrindellavano con gran dispendio di sangue. Cominciavano ad esssere Ds-Margherita e le accettate non si capiva più da dove venissero. Si doveva arginare il nemico dentro e fuori casa, anche se l'obiettivo era una sola casa, non restava che sperare si sarebbero impastati del loro stesso sangue. Da Pd, a mesi dalle elezioni, non hanno ancora finito di dissasanguarsi perchè nel Pd arrivano le forze fresche, ma annusano presto l'aria che tira e diventano vecchi il giorno stesso dell'iniziazione. Così paiono sempre gli stessi a menar parole per aria. Discorsi di sempre, li sento da quando m'ero iscritto a diciott'anni e c'erano generazioni già stanche di sentirli. A mesi dalle elezioni girano letterine in cui si prega il coordinatore provinciale di essere catalizzatore delle varie anime ecc..., evitando di sparare su questo e su quello per grazia dovuta alla sua fazione. Giusto! Non fosse che circolavano nella mia posta anche prima delle elezioni, e non solo le utlime.
Mi vien da pensare che non c'è speranza. C'è qualcosa che brucia anche le intenzioni migliori quando ci iscrive a certi consessi. Dev'essere qualcosa nell'aria. Sarebbe ora di aprire davvero le finestre, signori. O andatevene qualche giorno al mare.
Un paese non può vivere in loop quello che passa su rai due. Immagini di Celentano con i capelli. Totò, genio, ma un po' morto. Little Tony, quello che cantava cuore matto, chissà come ce l'avrà adesso. Vecchio. Forse da pensionare. Senza offesa per nessuno.
Ora me ne vò a studiare, voi andate al mare.

domenica 22 giugno 2008

Pensieri in volo come uccelli che si schiantano contro finestre chiuse

Mi ha fatto perdere l’equilibrio più volte come un ragazzino o uno scimmione stupido e ubriaco, dipende da chi mi pensa. Ho spaccato sedie, piantato forchette e coltelli sui tavoli, pestato qualcuno, violentato qualcuno, forse ucciso qualcuno e poi me ne sono andato. Ho preso a sassate finestre e a calci muri che molte volte appartenevano a lei. Ogni istante in cui l’ho immaginata guardare un altro come guardava me, andare per calli a Venezia col palloncino verde abbandonato e raccolto sta volta non da me, sorridere a lui chiunque fosse com’era un giorno per me, lasciarsi stringere e fare l’amore come sapeva con me, ho rotto tutto quello che potevo, cieco di una sorta di gelosia postuma. Avrei preso a sberle il primo a caso che mi diceva, "Sciocco, ancora ci pensi tanto? ", perché non avrei saputo esprimere meglio il concetto "Ma tu, che cazzo ne sai?", quand’è ovvio che tutti sanno tutto perché ci sono passati pure loro. Me lo scordo ogni volta che perdo qualcuno, c’ero passato anch’io. Dicono ci voglia distacco dalla propria sofferenza, almeno una certa dose per non rischiare la dipendenza, e io mi sono perso dentro come in una densa nube tossica e immensa, o era piccola, non so, non vedevo un accidente.
Tossivo del mio malessere con accessi in irrefrenabile crescendo, fino ad appoggiarmi a te e percuoterti, ma erano colpi di tosse, piccola... Quell’idea era nella mia gola e non respiravo. Quando provi la sensazione di soffocamento, quando hai in testa che tra un secondo è la fine, anche se perché semplicemente qualcuno manca, e vivi questa sensazione ogni giorno, più volte al giorno, non ricordi cosa significhi vergogna, non ti interessa. Non hai limiti perché se la fine ti attende, non c’è limite più grande e tutti gl’altri non esistono sotto la sua ombra. Metti da parte l’orgoglio perché tanto tra un secondo non ti servirà più. Dimentichi che la vita è questa, gira anche così: secondi in cui muori, secondi in cui rinasci. Non è un gioco, non ci sono bonus da portare a casa, ma ti sono date molte possibilità per arrivare al livello successivo, alla prossima fine.
Ora quei muri li hanno ricostruiti più spessi, le finestre chiuse forse per sempre, ma qualcuno c’è, affacciato all’altro lato, a sud, dove scalda il sole.
Ho fatto male i conti con me stesso.
E se non sono pazzo, è certo che lo sono stato.

sabato 21 giugno 2008

Un po' di sano esorcismo contro vecchi fantasmi

Ovvero: Se lei ti molla per un altro e dice che la colpa è tua.

Sta sera vi racconto l'epilogo di una vecchia storia. Nero su bianco a futura memoria. Per me, per tenere meglio gli occhi aperti quando servirà e magari per voi chiunque siate, affinchè impariate che qualche dubbio può aiutare a discernere lo stato delle cose quando vi siete troppo convinti per fede, o amore, che una persona sia come ve la immaginate nel vostro piccolo mondo ideale.
Perchè anche il mio stomaco pensava quei fatti del post precedente e vattelapesca in altri, pensava a lei, ma ora mi sento uno stupido pivello. Perché se ami una persona, le credi. Contro ogni evidenza. Anche se ti molla dicendoti che non la capisci ed è merito tuo. Se ti dice addio perché la allontani e non comprendi come tu ci riesca pensando a lei come alla donna della tua vita, continui ad amarla lo stesso. E ti vengono milioni di pesantissimi sensi di colpa perché ancora ebbro della felicità iniziale hai sentito come ti amava e se la perdi per sempre hai fatto tutto da solo... ma era tutto vero? Col senno di poi vorresti sinceramente capirci finalmente qualcosa perchè sai di non voler perdere una persona per l'intensità con cui l'hai vissuta, ma anche... beh, vorresti che gentilmente ti aiutasse a chiarirti certi dubbi sulla sua personlità che sarebbero d'ostacolo alla mia balzana idea di poter essere "amici" un giorno.
Il tempo passa, rimane il fegato grosso, a momenti, quando leggi per errore(?) il suo diario e non ritrovi la persona che conoscevi, almeno quando parla di te. Perché capisci che con buona probabilità non eri tu ad allontanarla, ma lei che s’avvicinava ad un altro, e da molto, moltissimo, tempo prima che tutto finisse. Lei che non ti vedeva più da un pezzo mentre guardava da un’altra parte, verso qualcun altro. E te ne parlava pure e tu prendevi tutto come ganci diretti allo stomaco. Perché capisco che se una persona insiste troppo a ripetere che c’ha provato, punto, a far funzionare le cose, tagliando così ogni possibile, minima, discussione ogni volta che diceva di provarci, sta forse gettando sabbia sulla sua coscienza. Per soffocarla.
Perchè semplicemente non voleva te, se non i primi giorni. Ma bastava dirlo, almeno per dare un senso alle parole "l'amore non basta", che non auguro a nessun innamorato folle di sentirsele sparare in faccia. Perchè senti di volere quella persona, che per lei spaccheresti ogni sasso del mondo per spianarle la strada, ma c'è qualcosa in te che non riesci a far funzionare e finisci per sprofondare nei sensi di colpa rischiando di perdere ogni buon senso e autostima, fino ad azzardare le azioni più insensate.
Forse non è vero niente, forse è tutto talmente vero che sembra ancora falso ai miei occhi.
Due persone che si amano, se si amano come dicono, devono fermarsi insieme, sulla stessa panchina, a guardarsi negl’occhi e capirsi. Ne hanno il dovere l’un per l’altro. Il resto sono scuse. E se ancora lo dico, è solo perchè vorrei ricordarmelo la prossima volta anzichè fidarmi e basta.
Perché ricordare tutto questo? Perchè è così che ho perso parte di quelli che sapevo i più bei ricordi della mia vita. Ci resti male quando capita, no? Perchè uno, così, non può più nemmeo dire a se stesso con un briciolo di certezza che è stato amato da quella donna, che è stato bello anche se per poco, dopo che tutto è finito.
Perchè ciò che conta è realizzare che i sentimenti, quelli veri, sanno essere spietati come una granata nello stomaco. Compreso questo, si cresce ancora anche a 28 anni, vedi le persone, il mondo, con il giusto meritato distacco. Da non crederci mai fino in fondo.

venerdì 30 maggio 2008

Quali frontiere barricheremo?

L’altra sera ero casualmente impegnato in una di quelle chiacchierate a stomaco pieno, che non pretendono certo di distogliere l’attenzione dalla digestione, ma che iniziano, forse, nel momento migliore per afferrare la sincerità nelle parole di chi normalmente, lontano dai pasti, deve spendere troppe energie per domare a calci il proprio pensiero.
Non potendo permettersi di impegnare il cervello su due fronti, contro il cibo e contro la libera espressione, trascorre il tempo della panza piena sciorinando il personale vangelo. Quello che, per esser maturato nella memoria, riempie l’ambiente come un fiume in piena.
Un degno commensale di casa Osbourne, proprio uno di quelli con seri e rumorosi problemi di digestione, sbotta dicendo che i gay sono dei deviati e gli fanno schifo! Sono solo dei pervertiti!
- Malati direi. Anzi, alla stregua dei pedofili suppongo... - Ci fa sapere di essere anche contro l’aborto! - Ma pensa! Anche il tuo DNA s’era pervertito? Che pessimo scherzo - Per lui la legge sulla fecondazione assistita è più che giusta
- Te l’avessero chiesto... L’integralista cresciuto in una provetta assistita in un laboratorio di Saddam. Usa le parole " madri assassine " – Però i negri e tutti gl’altri extra possono restare, - Oooh, un Satana senza forca né corna, allora - ... finché servono, e regolari! Che lavorino, non vadano a riempire i nostri bar, e non stiano sempre a raccontarsela nelle stazioni. Che le pago anch’io! E sono già luride per conto loro! - Opperbacco! Quante volte la settimana hai detto che prendi il treno? Aspetta che programmiamo i rastrellamenti della cooperativa SS, salvezza e sicurezza (per chi fosse dell’ambiente: coop Sissignor Senatur).
<< E, e...quelle moschee dovrebbero demolirle tutte. Raderle al suolo. Ma che credete combinino tutto il giorno lì dentro, secondo voi? Trafficano chissà cosa e organizzano attentati chissà dove >> – Costruite templi capienti! Dovranno contenere i grassi, loschi traffici di Allah, nonché il tritolo per far saltare i suoi fratelli... Parole del profeta!?!
Se vi state chiedendo che gente frequento, tranquillizzatevi! Non sarò il solo a frequentarla.
Alcune delle persone amiche con cui magari quotidianamente vi intrattenete anche per un caffè, potrebbero dirne forse di peggiori. Probabilmente tutto finirebbe in quattro risate e, per quanto amare da parte vostra, non avrebbero altra pretesa che di assecondare delle eresie, in cambio di cinque minuti in più lontani dallo stress, fuori dall’ufficio. Di noie ne incontriamo quante bastano ad occuparci la giornata, se cominciamo a cercarle nelle pause, nemmeno la notte garantirebbe uno spazio isolato per il sogno dei giusti. Ma poniamo il caso di voler controbattere a simili frasi fatte, costruite e distribuite nel comodo formato 'slogan'. Di voler ricacciare in gola al clone del miglior Ozzy, con le dovute argomentazioni, ogni singola parola. Che dire? Spiegare cosa? Mentre lui senza mirare lancia cannonate, io, con tutta la buona volontà di centrare il bersaglio, non posso altro che mandargli il rumore della mia pistola a salve. Pare così forte, nascosto dietro il fumo della sua artiglieria, da persuadermi quasi a credere le mie argomentazioni come dei bei, quanto inutili fiori lanciati a pioggia sul campo di battaglia. Il pesante fracasso di quella bocca appesa sotto il naso a stirargli gl’occhi, obliquamente spalancati a rovesciare il mondo, non può che distogliere la vista dai colori attorno. Probabilmente è una mera questione tecnica. Forse non si rende conto che le palpebre funzionano meglio se schiuse orizzontali.
Limitandomi a raccontarlo in termini di paragone, e tentando quindi di appendergli un’etichetta, potrei definirlo Razzista? E se così fosse, perché non mi sento tranquillo della gabbia in cui l’avrei rinchiuso? La parola ‘Razzismo’ stimola nei miei ricordi storie di battaglie lette e raccontate nei libri di storia. Scene di galee imbottite di schiavi legati ai remi. Afroamericani piegati e sudati come macchie su campi di cotone. Non riesco a non pensare alle tante lotte per la conquista dei basilari diritti civili in America e in SudAfrica, per esempio. Alle manifestazioni non violente di Gandhi. Alla soluzione finale prospettata dal Terzo Raich. Nella mia memoria insomma, vedo il Bianco e vedo il Nero, e tanto Rosso sangue. Riesco a scorgere nitido ogni colore di quell’arcobaleno civile che s’appoggia da sempre sul mondo intero. Adesso pare tutto più difficile. Sarà la globalizzazione a giocare mescolando quei colori, o una moda sociale ricorrente che sta passando esattamente sopra il sole e niente riflette bene come prima, ma, secondo me, il razzista, almeno nel mondo che noi conosciamo, esiste solo in cattività. Ci sguazza, ma nelle mani di un ottimo veterinario e di un accorto guardiacaccia, da lì non scappa.
A dare del razzista ad uno che non abbia lo scalpo di chicchessia in mano, o che non sia accuratamente certificato D.O.C come tale, si incorre nella scivolosa condizione di afferrare un fenomeno con la giusta intenzione di denunciarlo, usando però una pinza troppo grande e pesante perché l’operazione non appaia a tutti quantomeno eccessiva. Detto altrimenti, la sproporzione dei mezzi per la causa, suscita un’ilare indifferenza. Denunciando a sproposito razzisti nascosti in ogni via buia della città, si toglie peso ad un termine cresciuto con la storia, da usare se necessario rompere il vetro e si grazia, con l’impunità pubblica, chi vive nella quotidiana Intolleranza.
Il muro del Razzismo si è frantumato. E’ come fosse esploso in tante minuscole macchie d’olio sulla superficie limpida ed increspata della nostra esistenza. Allo stesso tempo però si è depotenziato disperdendosi, non certo irreversibilmente, nella moltitudine di isole che siamo. E siamo tante. Incapaci fisicamente di organizzare un solido fronte comune, esattamente come della macchie d’olio. Considerate che se i confini di ogni chiazza opaca si stringono, sicuramente si ridimensiona l’uso della valvola razzista, ma nel contempo aumenta la pressione della diffidenza e dell’intolleranza. Le più pericolose sostanze disciolte naturalmente nel sangue umano e che, oltrepassati incerti limiti, lo fanno ribollire.
Penso alla ragazza mentre aspetta il tram. Nascosta tra una folla di cui essa è la figlia di razza. Non si cura apparentemente di nulla, se non della voce al cellulare, il suo mondo nella mano. Non vede, non sente, ma bastano quattro suoi decisi passi indietro, l’occhio dato per disperso che si fa attento e sottile, per capire che s’è accorta della strana famiglia venuta da un extra-lontano. Radunata ad aspettar lì il mezzo, ancor prima che il suo mondo le squillasse in mano.
Che dire della donna di mezz’età imparruccata dalla domenica, che scambia il make up mattutino per il trucco della guerra tribale? Un posto nel bus certamente vale uno sguardo arcigno e una frase scortese ad una giovane indiana.
- Non ti sei marcata gl’occhi di nero-blu per la battaglia sta mattina? - E’ questo il prezzo da pagare, per rivendicare il proprio diritto di cittadinanza, in quest’Italia spalancata e piccolina.
Sembreranno, i miei, nient’altro che esempi sospettosi e paranoici. Potrei procurarvene una lista di ben più gravi, ma svierebbero solo l’attenzione dalla paradossale leggerezza dei fumi tossici abbandonati dal razzismo. Diffidenza e intolleranza si sono sprigionati dopo la caduta di quel muro a difendere ciò che apparentemente rimane del nostro sminuito territorio individuale.
Eravamo i bianchi, i ricchi, i veri cristiani, i detentori del Diritto (a tutto!), i conquistatori della cultura più avanzata. Ignoranti ciascuno la sua parte, ma consapevoli di rientrare in una delle dette magnifiche categorie. Comunque altro, almeno molti lo credevano, dalla restante parte, da quel sottomondo che poteva solo esser colonizzato, ma non salvato. In mezzo, si ergeva a monumento divino, il muro del Razzismo. Ora non può esser più così, e non ritornerà mai diversamente.
Sottocoscienza sappiamo tutti gli uomini essere uguali. Miliardi di cervelli, nasi, occhi, bocche, mani, piedi tutti letti sopra la medesima mappa senza specifico colore, moltiplicati ciascuno per gli altrettanti diversi errori di interpretazione. Ah, stupendi scherzi della natura che siamo!
In casa, in ufficio, o per strada la prova scientifica dell’uguaglianza l’abbiamo sempre con noi. Ma non lo sapevamo. Chi l’avrebbe detto saremo rimasti senza alibi? Frustare il 'negro', anche con le sole parole, come fosse un bastardo randagio e pidocchioso. Pensare all’handicap su due ruote e non all’uomo che portano, assecondando a passo svelto il brivido dei senza speranza. Alzare al cielo la croce per mettere in fuga Allah, non ci è più concesso senza sudare sotto il peso dei sensi di colpa, o senza che qualcuno senta il dovere di additarci al pubblico giudizio. Inchiodati, nonostante tutto, all’incontrovertibile responsabilità verso il prossimo, nostro fratello, gli dobbiamo la dignità d’esser vero come noi. Legittima come la nostra sarà la sua cultura, unica quanto la nostra la sua religione, forte non meno della nostra l’aspirazione ad una sua economia. Il tutto evoluto secondo la sua diversità. Ma allora quest’uomo, ‘nuovo’ solo perché ci si era persi di vista, ma vero adesso come noi, intenderà muovere i suoi legittimi confini verso quale direzione? Invaderà i nostri limiti culturali, economici e religiosi? Oppure vorrebbe allacciarli ai nostri pacificamente? Ci barrichiamo e selezioniamo con maniacale perizia, o apriamo le porte e l’accogliamo? Nella seconda ipotesi, chi ci assicura che quello non ci conquista e deruba? Poche epocali domande con un’unica valida risposta. Chiuderci all’interno non è più possibile. Semplicemente perché è impossibile.
Quell’uguaglianza, questa impossibilità unite dalla incontestabile umana diversità, non possono che generare una viscerale diffidenza. Il biglietto d’ingresso per un piccolo mondo piegato dall’ansia dell’intolleranza, oppure seme critico per coltivare dialogo con la speranza di farlo crescere in una sterminata valle assolata. Oggi, ogni interesse particolare che escluda volutamente altri da evidenti benefici, facilmente è inteso come meschinità semplice e pura. Le voci girano meglio di ieri. Allora mi domando come mantenere i nostri giocattoli senza apparire meschini. Come rubare le caramelle ai bambini 'diversi', senza passare per ladri pervertiti.
Un razzista mi risponderebbe che al randagio non devo nulla, e se intendessi fregargli l’osso non avrei da chiedere alcunché.
La realtà, invece, m’assicura che ora, e mai come adesso, non sono solo affari nostri. Se rubare e tenere, o restituire e offrire.
La scelta sarebbe ovvia, ma com’è ovvio l’animo umano bestialmente ladro, rubiamo, teniamo e ogni tanto restituiamo, non scordandoci di tirare la catenella.
Ciò che spaventa è l’esser proprio tutti così maledettamente uguali.

sabato 24 maggio 2008

Giorni da clown

Giorni da clown


Alcuni libri te li ritrovi in mano quasi per caso e in ben particolari momenti della vita, che non giureresti davanti a nessuno, pienamente convinto, che sia stata tutta una semplice coincidenza.
Trascorri periodi che ormai hai rinunciato a segnare nel calendario, tentando di abbattere quei muri che sembrano cresciuti con una velocità tale che speri, e altro non puoi pensare, sia tutto un sogno.
Le persone che incontri per strada sono diverse…Interroghi i vecchi amici per capire se sono ancora loro, li ricordi, scorgi le sottili discrepanze con ciò che vedi e dubiti anche di te stesso. Ero io?
Ci sono dei momenti in cui tutto si riduce ad un attimo e ogni cosa, ad ogni ritorno, non ti sembra mai la stessa.
In quei momenti comprendi la vita come un album gonfio di straordinarie coincidenze, fotografate per essere ricordate così, perché non sarebbero ritornate mai uguali. Nel peggiore dei casi, ti avrebbero abbandonato per altre ancora, essendo tutte in fondo nient'altro che storie divergenti di vite che si sovrappongono in un punto, con un tempismo maledettamente perfetto, e per poco più di un istante...
Esci di casa la mattina e anche quel giorno t'accompagni con l'idea di vivere in un istante, e la tua mente s'arrangia come può per accendervi sopra una luce più intensa per cogliere le sfumature che andrebbero perse irrimediabilmente.
Così avviene che un incontro possa quasi soffocarti dalla gioia come fosse per la prima volta e, viceversa un saluto, strapparti una lacrima di malinconia come un addio...

Mentre annusi l'aria
intrisa d'acqua sole ed alghe
seccate sui sassi d'un tardo pomeriggio
trascorso in mezzo al Piave
Ti scopri semi serio
a confessare ad un'amica che sì,
la tua vita è una raccolta di istantanee
che ad appenderle non raccontano una storia
e finalmente hai capito una parte di quel che sei
Però ti senti un po'meno tranquillo di prima
e non ti spieghi oltre
per non respingere, mani avanti
quel sole seducente rovinando l'incontro
L'unica certezza che ti concede
di guardarla negli occhi
scordata la vergogna
per quel che le hai taciuto
sul racconto di mille favole
confuse in appunti troppo sparsi,
è che la tristezza, nata nel nulla
così s'è spezzata
ed ha un senso

Allora hai l'impressione che ti capiti di tutto e ti dici: "Che sorpresa!". Come quando ci siamo parlati su quella panchina, mentre le guardavo la guancia,lei capo chino su dei biglietti del treno, mi sono sussurrato un po' di volte: "Ma tu guarda, chi l'avrebbe mai detto".
Ti sorprendi a tal punto che anche uno come me arriva a chiedersi se debba mai ringraziare qualcuno, uno di cui già da molto tempo ho rifiutato l'esistenza. Ma le cose finiscono e ti senti una piccola, unica parte di un tutto troppo grande e finisci per vederti diverso, e mancare di proposito il tram che portava tutti. Mentre aspetti il prossimo ti leggi un libro scelto distrattamente tanto per ammazzare il tempo, e giungi alla fine che il protagonista condensa in una battuta la stessa conclusione per la quale tu, nei tuoi pensieri, avevi scritto un capitolo di recente:
- Ma che tipo d'uomo sei?, e lui -Sono un clown e faccio raccolta di attimi!
Esattamente come se avessi incontrato un amico che ti sa leggere dentro, ti convinci di non essere poi così diverso, e sicuramente un po' meno solo dell'altro ieri, tanto che adesso diventi impaziente perché il prossimo tram, al solito, ritarda...

sabato 10 maggio 2008

Se un bambino...

Caro Diario chiuso nel cassetto,
in questi giorni molti si chiedono ancora perché certe cose accadano. I più rintronati si interrogano su che ministero sia quello delle semplificazioni e come passerà le sue giornate Calderoli dentro tal ministero, consapevoli che le risposte saranno dure da credere se si difetta di fantasia. Però, tutti quelli che hanno il tempo di interrogarsi, cercano anche qualche traccia del preallarme che fatti come quello di Verona meriterebbero. Quali siano i segni che ci avvisano dello tzunami o se dobbiamo accettare sia solo un’onda improvvisa da subire terrorizzati. Com’è possibile che il male sia così assoluto, o banale, in alcune sue dimostrazioni estemporanee di vitalità, che diventa tanto facile sospettare che un ragazzo, preso a calci fino a morire, non sia morto per davvero se non in un brutto sogno? Se non c’ero, non posso crederci. Quasi come chiedersi se dio, il più illustre tra gli assoluti, esista. Perché ci hanno detto che i romeni sono un problema dai tratti dell’essere endemico, forse l’unico ad attentare seriamente alla sicurezza nazionale e va estirpato. Purtroppo nulla ci hanno raccontato sui pallidi ragazzi di pura razza per bene. Quelli di buona e onesta famiglia. Lo sanno bene quelli che hanno votato questa destra, che l’emergenza stranieri per forza esiste nonostante i delitti violenti in Italia siano in netta diminuzione. Una sorta di sfida alle autorevoli aspettative della redazione di ‘Studio Aperto’, ahimé non solo, che doveva spolmonarsi a soffiare nelle rare notizie, pur di sventolare una bandiera in campagna elettorale. Le risposte si trovano ascoltando un po’ a caso i vari salotti. Ne hanno prodotte alcune i nostri cervelli migliori, compreso quello del presidente della camera secondo il quale bruciare una bandiera è fatto assai più grave di un pestaggio mortale gratuito. Anche se va detto, sempre secondo lui, che i fatti da lui stesso menzionati e paragonati, non sono certo da paragonare…Il che mi ha lasciato lievemente confuso e, per afferrarmi ad una misera certezza, ho focalizzato sulla notizia che gli assassini erano una gagliarda banda di fascinazisti. Ah! Il nostro presidente gioca d’azzardo con la sua storia personale e stava solo mischiando le carte in tavola per confonderci il grande bluff. C’è chi ha stigmatizzato quei ragazzi semplicemente come dei delinquenti che andranno necessariamente trattati come tali, in nome della giustizia uguale per tutte le razze. Quella Veronese compresa. A me, caro Diario mio, par di sentire piuttosto un gran sciacquio di mani nel rumore che producono le chiacchiere di questi personaggi, siano essi sindaci o presidenti di regione o peggio, della camera. Non mi spiego altrimenti la riduzione a niente, ad un semplice fatto di cronaca nera, di un accaduto così grave. A meno che non sia questo che intendevano per Ministero della semplificazione. Perché, mettiamoci d’accordo una volta tanto: se sono ragazzi per bene nati di buona famiglia, è difficile parlare di delinquenti della peggior specie alla stregua dei barbari dell’est. E viceversa. Il sillogismo magari gocciola in qualche punto, ma quanto meno dovrebbe far sorgere più di un dubbio, non dico un rimorso, a chi usa le parole con tanta leggerezza. In fondo l’odio assassino di gruppo, appunto perché di gruppo, non nasce dalla follia di un istante, di un singolo che magari accoltella la famiglia. Cresce laddove viene coltivato, l’odio. Poi ciascuno lo raccoglie a modo suo. Chi s’accontenta d’urlarlo allo stadio o al bar, chi non vedendo argini, confini, tra pulsioni spesso ideologiche e realtà, usa anche i calci per risolvere un suo problema. E di coltivatori diretti applicati al settore l’Italia ne è piena. Le loro parole vengono sdoganate come pure esibizioni folcloristiche, talvolta sfruttate a mero uso elettorale quindi buone per cacciare voti. Ma c’è sempre qualcuno preparato a riceverle, a sentirsi esso stesso sdoganato finanche investito di un dovere tutto ideologico e si finisce come a Verona. Penso a chi come il sindaco della mia città, Treviso, per esempio definisce e apprezza i musulmani come un tumore. Un tumore sai che se non lo uccidi prima tu, sarà lui ad uccidere te. Oppure ricordo il giorno in cui dei nazi presero a bottigliate donne e bambini accucciati davanti il duomo per protesta. Il mio sindaco sceriffo disse che erano solo ragazzate. Penso poi al sindaco leghista di Verona che accoglie in consiglio un noto naziskin che si bulla pure d’esserlo e con precedenti penali per odio razziale sulle spalle. La piazza che salutava Alemanno con il braccio teso e il ragazzo che al microfono non prova vergogna e vorrebbe tanto sentirsi fascista vero, e che sfiga non essere nel ventennio. Mi sono rattristato il 25 aprile ascoltando un servizio alla tivù locale. La giornalista chiedeva “Ma liberazione da cosa?” Due su dieci hanno indovinato, uno era dell’ANPI. Stralci brevi di esempi veri, per sorridere quando parlano della morte delle ideologie e piangere allo stesso tempo. Perché l’odio e la paura sono ideologia. Hanno tentato di costruirci un impero sessant’anni fa e c’è mancato poco. Odio e paura fanno massa, e la drogano. I più spregiudicati lo sanno e raccattano voti in un’Italia sempre più impoverita, soprattutto della sua storia migliore che le aveva scrollato di dosso quell’aria di bassa provincia. Diventa ideologia perché forse è vero, come dice un attenta signora Doret's Law Nolte, che se un bambino vive nella critica impara a condannare. Se vive nell'ostilità impara ad aggredire. Se un bambino vive nell'ironia impara ad essere timido. Nella vergogna impara a sentirsi colpevole. Se un bambino vive nella tolleranza impara ad essere paziente. Nell'incoraggiamento impara ad avere fiducia. Se un bambino vive nella lealtà impara la giustizia. Nella disponibilità impara ad avere una fede. Nell'approvazione impara ad accettarsi. Se un bambino vive nell'accettazione e nell'amicizia impara a trovare l'amore nel mondo. Con la benevolenza impara che il mondo è un bel posto in cui vivere
Bambino o cittadino, una domanda soltanto: dove insegnano tutto questo?

sabato 19 aprile 2008

15-4-08

Qualche volta i giorni mi trapassano come una scarica e mi ritrovo steso al suolo a faccia in giù con poca forza di rialzarmi e mi trascino. Li conosco come già visti con l’umore a pochi centimetri d’altezza, quei miei giorni.
Certi giorni passano che mi guardo attorno chiedendomi confuso se non ci fossi già passato, se quei volti non mi abbiano già detto quella cosa. A lezione chiedo se quel tal posto è occupato, o forse lo era ieri? Il tizio dell’edicola ogni mattina è distratto a leggere borbottando un titolo in uno scaffale sopra la testa, e impiega esattamente lo stesso imbarazzante tempo di sempre a reagire alla porta che sbatte e lanciarmi il solito. Mi saluta chiamandomi ‘caro compagno’ con un repentino tono ufficiale, saltando sulla sedia quasi a giustificare quell’irriguardevole ritardo, ma il più delle volte solo un ‘ciao caro’ che tanto basta a riconciliarmi col mondo appena inizia la giornata. Porta un cappellino con visiera verde sbiadito e occhiali grandi quanto una maxi-pizza, così spessi che offrono un senso alternativo all’idea di prospettiva. Ha il suo mondo di carta dove ficcarsi, una moglie e un cane che lo porta ad uscire tre volte prima della chiusura, grazie soprattutto alle irridenti parole sulla targhetta ”Torno subito”. E’uno che sembra scemo nel modo stralunato in cui si scorda di te, nell’istante esatto mentre stringe la mano e la ritrae con la monetina, ma ti rimette in strada col dubbio di essere precipitato con le tue stupide conclusioni. E’ lui in ritardo o sono i tuoi neuroni che per la fretta di arrivare, ora, sono troppo spompati per capire lui? Forse non è che un po’ scemo per via di quella faccia accigliata e un po’ pagliaccia che, nel dubbio che instilla, nasconde qualcosa e probabilmente anche a lui ignota.
Incontro giorni in cui per la strada i volti della gente sono una sorpresa come tanti pesci in una rete. Storie che vorrei conoscere e mi limito a raccontarle a me stesso per gioco e per trovare un senso ultimo di tutto quel su e giù lungo i marciapiedi, mentre passo oltre e le urla lamentose di una donna mi sbattono in viso come una folata di vento caldo, attraverso una finestra spalancata d’un colpo. Una madre in affanno perché il caffé sale e brucia , un bimbo le piange addosso appeso al collo e il marito latita in un’altra stanza inseguendo le ultime sul calciomercato.
Una finestra, una vetrina. Una confusa e piena di gente con gl’occhi gonfi in fila per la colazione con cappuccino e brioches. Un’altra, impolverata e stantia, è il negozio di Horus. Si nota, certo, con quello scaffale di legno dove si ammucchiano, in calcolato disordine, borracce di latta bucate e ammaccate nella prima o seconda guerra che, d’istinto, vorrei sfiorare quasi per ascoltare tutte le bocche che da lì hanno sorseggiato del vino con una punta d’aceto, grappa cotta in una cantina e forse troppo o soltanto acqua. Cimeli vari di riflessi che la polvere ha ammazzato, compresa una maschera antigas in cui ogni giorno intravedo un gigante topo morto avvelenato e quella lontana sensazione che mi ha messo lo stomaco sotto sopra fin da piccolo, per l’unica volta che vidi davvero un film stile “The day after”, ma che ancora non riesco a togliermi quel suo gusto da guerra fredda, ferroso e di calcestruzzo rosso pallido arrugginito al tramonto, come i veri ’70 che ho sfiorato per un soffio.
Una vetrina dopo l’altra e mi specchio spettinato in un riflesso ombra al retrogusto del primo giro di caffé e nicotina. All’interno una donna porta una cuffia a barchetta arenata tra dei capelli ancora agitati da una tempesta di sonno. Serve pizzette a dei ragazzini che se la ridono tra loro senza badare a lei nemmeno quando pagano, mentre il viso del mattino le disegna un lieve sorriso che non pianterà alcun ponte perché nessuno, forse, lo noterà mai abbastanza. Magari domani, magari andrà diversamente. Vado oltre, mani in tasca, il mattino ha l’odore dell’asfalto che s’asciuga, ma respiro guardando il cielo terso e, per qualche secondo, nei miei polmoni non entrano che il sole e le cime dei pochi alberi verdi stropicciate dalla brezza di lassù. Evasione. Immaginazione. Non importa. Mi sento pieno così, nei giorni in cui qualcuno manca. Perché ci sono dei giorni in cui l’improvvisazione della vita suona un jazz che non è consentito resistergli oltre, devi prenderla e ballarci dentro fino alle ossa.
Come basta una sera, uguale a ieri soltanto, a scordare le corde del jazz e chiudere ancora le speranze proiettate nel mio mondo un po’ diverso, perché in democrazia se si gioca da una parte, si vince e si perde; e si perde che alla conta dei punti ti mancano anche le gambe per cercare un’altra fetta d’anima da rischiare in una nuova partita. Speranza, impotenza, lacrime, la sconfitta ha un sapore atavico che mi ricorda gl’occhi bassi di mio padre in tuta blu che bruciavano fino a poco prima, sopra un pagina di giornale; rimanda alla figura possente e dritta di mio nonno contadino, ancora giovane e comunista, che alza le spalle una volta, e una soltanto, per non vedere il muro dietro de sé e andare oltre. E mi avvicino inesorabilmente alla dispensa comune di consolazione preventiva, perché una madre come mia madre, comunque vadano le cose, ucciderà il vitello grasso perché la vita va avanti e così è sempre stato. Sono quelli che la storia l’hanno nel sangue e non rinunciano al sogno di cambiare il loro pezzo di mondo con l’opposizione messa tutta a pompare nel cuore, anche se rimane impressa nel loro destino e poi, il resto contro, oggettivamente, era una valanga.
Arrivano sere così, che la pelle ha trasudato ogni umore fin dall’alba, fin dall’apertura dei seggi con la responsabilità d’essere presidente e la fanciulla commozione del militante. Acre tensione che non vedevo l’ora di scrollarmela di dosso come un serpente la sua vecchia usurata faccia…Ieri sera girava pure qualche nota blues, stonata dal vino di colore denso come sangue, le risate starnazzate a tavola che tanto vale ridere o piangere, se hai delle radici a cui stringerti aspettando che la delusione sia finalmente sazia di illusioni e ti abbandoni a ripartire in pace.
Giorni come questi possono sembrare tanto pieni che al tramonto non ti aspetti nient’altro perché cos’altro ancora potrebbe accadere?...
Che lei venisse dal campo, dalla sterrata, tra la poggia sottile e scura, altra musica di un ospite inatteso, stretto in un lungo cappotto bianco, assorbente di luce come a scherzare con una notte d’ombre e minuti specchi d’acqua. Una donna che aveva nei capelli e negl’occhi quel velo bagnato di chi vaga bussando qui e lì, in cerca di una porta aperta per scappare il temporale annunciato.
E’ apparsa sulla porta con un certo suo sorriso che parla allo straniero, pallida in un viso chiaroscuro scavato in certe docili ombre, come ricordo di un tempo lontano, che stavo per dirle
-Davvero ci conosciamo?

mercoledì 16 aprile 2008

E' arrivato quello del gas!

Quando il nord-est si sveglia, lavora. Quando il nord-est dorme, lo fa perché il giorno dopo lavora ancora. Sarà pure una virtù leggendaria e, se vera, magari necessaria, comunque sia lavorare stanca, davvero; e non solo. Se non ti muovi con le dovute cautele rischi pure di lasciarti prendere dalla realtà e rimanerci secco, perché sono pochi gl’euro che ti passano in busta e con quelli puoi distruggere molti dei desideri che ti si sono accumulati nel frattempo nel cervello e i desideri frustrati si chiamano anche col nome piuttosto sgradevole di invidia e... e se vi racconto che negl’ultimi tempi ho lavorato non è certo per stupirvi, per lasciarvi increduli di fronte alla mia finalmente trovata remissione alla fatica! Quei soldi mi servono quasi come fossero aria, perciò sono salito in sella ad una bicicletta nera arrugginita dalle botte, con i freni di mio nonno ad asticelle di metallo incernierate, e di gambe ho preso a girare per centri di piccole città che crescono. Un Tetris in calce colorata fetalmente rappreso attorno ad una chiesa, un municipio ristrutturato di fresco, una farmacia, qualche baretto magari costruito pure di recente, ma con l’odore del vino, del tabacco fumato sulla panca di legno all’ingresso e del vecchio dentro con un gomito sul banco, chiedendo se molto gentilmente potevo leggere un cacchio di sporco contatore del metano, che non di rado sta incastrato dove la fantasia nemmeno immagina. Se l’è decisamente scordato fintantoché bussa uno come me, col mio cartellino di riconoscimento: "Salve! Sono quello del gas!", e quello del gas è lo stesso che fa arrabbiare anche i cani più mansueti così, di solito, eravamo in due a cercare per cortili frugando tra le siepi, in due a correre uno avanti all’altro e non certo per giocare a guardie e ladri, ma uno solo ringhiando con l’avido pensiero puntato sulle mie chiappe.
Chi mi conosce sa quanto tema l’alienazione che solitamente si prende sgobbando come fosse una malattia, anche se, lo ammetto, oramai non è nel lavoro il luogo più scontato dove si acquistano certe pessime abitudini. Per esempio: uno studente d’ingegneria rimane un soggetto comunque a rischio, e per evitare di abbandonarmi in un mondo parallelo, fingo di non essere uno studente d’ingegneria, oltretutto con scarsa dedizione alla causa, e mi convinco di tanto in tanto di sapere cosa significhi lavorare, raccontandolo.
Il mio guaio in definitiva sta nell’immaginazione. Nel vedere le cose attraverso, che magari neppure sono, però costruisco lo stesso una dimensione degna di loro, involontariamente, a volte con uno sbuffo, perché entrare nelle case all’improvviso, un giorno piuttosto che un altro, è un po’ frugare nell’intimità umana. Nemmeno ti pettini se non aspetti visite, no?
Sono trascorse due settimane dentro e fuori un ciclo di vite d’alti e bassi, spesso tirate in una media desolante di vuoti da seppellire, o solo nascosti, oltre mura di cinta da misurare col naso all’insù.
Tanto che, semmai abbia interrotto alcuno dei rari padri a giocar sull’erba con i loro piccoli e in barba alle previsioni di una bolletta salata in arrivo, ad un certo punto ho dubitato fossero mandati in scena da quelli della 'Mulino bianco' apposta per me (Ho sempre meditato d’avanzar qualcosa dal conto che hanno aperto con me quand’ero un ancora bambi!).
Com’è possibile dimenticare la cucina di un uomo sulla sessantina che pare abbia ispirato figure mitiche come Obelix, che gioca con le dita tra le bretelle, mentre con un mesto sorriso simile a quello di chi si ritrova solitario dopo una lunga splendida festa, mescola del ragù sul fuoco e dice: "E’ troppa carne, ma mi creda, lo faccio solo per me!". La solitudine per qualche istante lascia uno spazio al cibo, vero...
O quella donna che sente il tocco del campanello, io non sento lei, di certo sarà la solita vecchia sorda che tenta di convincermi che sono un poco di buono, perché ‘quello del gas’ è passato la mattina precedente, e mentre io insisto, al campanello, si sporge dal terrazzo, gracile al vento, sistemando il fazzoletto sulla testa per coprire un’assenza che non è semplice calvizie, con le poche forze scovate nell’agitazione. "Mi scusi", dice, "Sto male, ero a letto. Potrebbe saltare il cancello? Sa, vivo sola e non ce la faccio a scendere. Mi scusi tanto, tanto...". Si figuri... E salto in tutta fretta quel ferro scrostato per togliermi alla svelta il pensiero del fazzoletto. Intanto il sole di un maggio pianto e non previsto continua a picchiare come prima, su tutti, e due civici in là tiro d’abbasso uno spettinato grigio e bolso che mi chiede d’evitare di rompergli le palle chiudendomi gentilmente la porta in faccia, ché lui è di turno la notte e alle undici del mattino ancora dorme. Che lo lasci in pace, diamine! Giusto...
E di civico in civico, conto fino a dieci e non ci credo, perché la strada è già finita e i palazzi alti abbastanza sono lontani, s’affacciano sull’altra via. Sull’uscio padri o figli che, nonostante un sorriso di pace, butteranno i vestiti sporchi di calce e pittura solo a sera; altre volte, madri o figlie che scordando i minimi convenevoli, indicano che… ”E’ di là!”, con un dito o un cenno del capo. E tu, ‘del gas’, passi incrociando una famiglia intera che aspetta nervosa con la speranza che si faccia a tempo a buttar giù qualcosa. Rumeni, albanesi, marocchini, ma soprattutto italiani, tanto per fugare qualche dubbio, annidati come pidocchi in stanze ricavate a nido d’ape. Sono tanti, forse troppi in quel posto, famiglie intere per le quali è quasi l’una. Alla fine un profumo di stufato, di ragù, bolle anche nel peggiore dei casi. E il fritto!…e chissà se saranno cinesi. Venti? Trenta? Quelli di ieri nel casapannone, nemmeno si sono girati a guardare chi osasse suonare la campana, chini, non gli sarà concesso, ho pensato. S’avvicina una bimba dagli occhi a mandorla e tanto brevi, e parla, parla, parla a lungo…mi confida quasi l’intero album di famiglia, e chiama sua sorella che è appena arrivata da una regione contadina di una Cina che non saprei neppure se esista, e non afferra una fregola d’italiano. Ma perché l’avrà fatto? Mi chiedo…poi un inchino, e un altro ancora, intendo che non hanno capito nulla, in fin dei conti sono un mezzo becchino, non lascio scampo, i numeri sono numeri, e soldi da pagare…piuttosto mi crederanno una sottospecie d’autorità giudiziaria con il tesserino appeso e un computer in mano, e mi pregano quindi d’entrare. Trovo quel che cerco e vado oltre. La bolletta arriverà malgrado l’inconcludente mediazione culturale!
E due settimane se ne sono andate che tante altre storie avrei, ma oltre, adesso, il mio fegato già provato dal vino e dalla birra ne risentirebbe fatalmente. Dodici giorni dalle 8 alle 20. Mai il tempo e la voglia di un giornale. Fuori dal mondo, in un altro mondo. Così l’ultimo giorno decido di rimettermi al passo delle notizie più recenti, almeno il governo, dai che ci sarà ancora! E c’era... E con lui Mastella, malgrado le piaghe da decubito sul sedere. La prima pagina se la gode dapprima LucaCorderoDiMontezemolo mentre butta un occhio all’orizzonte con fare sognante. Vede il morto di fame che finalmente spende! E credetegli, sorride e sta in coda alla cassa! Poi…ecco che esce a saltelli da un buco di luce, ha una tìvì al plasma e tanti frugoletti che gli girano intorno, si appendono alla giacca. Sono impazienti che non stanno più nella pelle dall’emozione! Tremila euro per la tìvì è stato un vero affare per tutti. Anche meno per il negoziante che non se li gode più di tanto, dovendo già pensare all’altro in fila con la lavatrice. E via, via, uno in coda all’altro a costruire il sistema paese!
Mai nessuno che tiri la giacca a LCDM per ricordargli che rappresenta quelli che dovrebbero pagare il morto di fame, quello sfigato d’un pellegrino che persiste testardo a non togliersi mai la fame, o almeno qualche sfizio…il famoso anello mancante, altro che cuneo fiscale.
E nel fondo, Bagnasco, subito in serie a LCDM. Molto autorevolmente confessa come da un po’ di tempo sogni poco, non visioni, più che altro suda per via degl’incubi; è come se mezza Italia volesse metter su famiglia senza invitarlo alla festa, e con il solo pretesto che lui non imbrocca la lista degli invitati. Non c’entra proprio secondo loro…
Mi sento più esausto di prima, comincerò l’aggiornamento l’indomani. Sorvolo sulla seconda pagina dove arrivano i nostri con Prodi in testa, ma in mezzo, o ancora in testa. Finisce fuori dalle file laterali, si son fermati quelli in prima linea e non hanno avvisato. Nel parapiglia tutti vociano, l’uno finisce addosso all’altro compagno che ha frenato bruscamente... Alla fine s’è persa la testa…

Cari miei,

io vi propongo un giro a tutti, a chiedere: "E’permesso? Leggo i contatori del metano..." .

venerdì 28 marzo 2008

Ne succedono di cose...

Caro Diario,

ne succedono nel mondo di cose che due senza dio come me e te non controlleremo mai e ci fanno arrabbiare…Tanto che in certi momenti di buio e solitudine la vita mi pare un brutto mostro, musone e irascibile, che gli serve un sol colpo di coda per mettermi sotto se quel giorno gli gira male. Poi lucido i pensieri quanto basta per dare un’occhiata a quel che succede di fuori e sorrido, della mia stupidità, della mia presunta fatale malinconia: scopro che sono fermo, avevo solo smesso di cavalcarla quella scorbutica bestia che mi porta spesso dove vuole; e non posso certo odiarla proprio per questo...Dove sparano sono quello dietro la cassa che ansima e prega anche il dio che non ha. Là rubano, sporcano o si raccomandano e sono quello che si chiude la porta alle spalle, perché che vuoi che sia se fan tutti così. E’ il sistema! Soprattutto chiudo un occhio oggi per non avere grane domani. Impicci che in fondo non sono merito mio. E così nel mondo basta anche la nostra Italia a spaccarci il fegato con la sua politica degli "a volte ritornano, ma anche spesso e volentieri". I suoi rifiuti tossici nemmeno poi tanto abusivi perché nessuno ha visto niente, nessuno denuncia niente. A pochi metri, cento passi, ma che conviene a tutti fingere nascosti dietro un muretto di pochi centimetri pur di coltivare tre righe di fragole. Si comprende perché convenga a tutti dire "governo ladro!", senza mai un sano "mannaggia a me che pensavo il senso del civico fosse solo un numero appeso fuori di casa, e gliel’ho lasciato fare". E alzi la mano chi l’ha visto su Report! L’Italia e i suoi prezzi che al supermercato ti metti in fila alla cassa più lenta, sperando che lo sguardo telescopico della cassiera non si fissi su di te, ancora preso nel dubbio da risolvere quanto prima se…me li prendo o meno i preservativi di marca? La sicurezza certo, ma…quanto costa! A quel punto vorrei finalmente un poliziotto di quartiere sotto le lenzuola, ma la mia voglia di vivere non è di queste parti, figurarsi il quartiere tra le gambe che forse a Baghdad la situazione è più tranquilla. Comunque sia, la colpa è chiaramente del petrolio che sale e le mie mutande che fluttuano in borsa manco fossero uno Zeppelin in fiamme. In definitiva vale sempre che tana libera tutti, o quasi tranne te, e tu ti chiedi perplesso: perché?. Ma poco importerebbe di tutto questo se servisse a qualcosa parlar con te, Diario mio, della donna che ho perso, che ho trovato un anno e ho perso e se n’è andata un giorno che mi pare ancora ieri, ma cosa intendeva poi con la storia della macchina che non gira, non lo so. Io le donne non le capisco molto, forse quanto te, che una donna non l’hai mai avuta. E’ scesa dalla mia 205 e la porta s’è pizzicata il nostro addio con il nastro legato al regalo del mio giurato eterno amore. Ora però rifletto che m’importa di tutto e niente, assaporo il vuoto nel pieno e viceversa, la vita com’è, e pure quel che non c’è. Intime profondità di schiene che forse avrò, rotondi, molli, sodi, seni che bacerò, ma in tutto ciò ancora disapprovo la guerra quanto detesto le battaglie ipocrite di quelli come Ferrara, che perdessero almeno il pelo se non il vizio di metterci la faccia a qualunque costo. Così, allo stesso modo, eviterei volentieri coloro che stringono sempre la medesima croce dietro lo stesso scudo da cinquant’anni e ormai segnano il passo di una moda politica stile ritorno dei templari, ma sono solo sepolcri imbiancati o forse è quella una maschera, perché si dica che sono delle muffe ben conservate, piuttosto che ipocriti mal celati. Dai, quelli che difendono la famiglia degl’altri scordandosi d’averne più di una nascosta a soffocare nell’armadio e giurano a gran voce "Io mi batto contro la mafia!", ma sfigatamente baciando a destra e a manca, vasa vasa lì e qui, si fanno proprio quelli a cui il favoreggiamento forse è, più che altro, un cannolo nel sedere ai milioni di italiani che ci credono, davvero, all’avveniristico sbandierato cambiamento. Ma…ma sappiamo entrambi che quelli sono nulla e c’è di peggio. C’è di peggio che a casa nostra quelli come me e te si sono fermati troppo a borbottare in salotto per un amore finito con lo 'strapp'; per le ascelle del capoufficio che puzzano di rancido, mentre ti sbraita in faccia che sei un buono a nulla e pure sputacchia come uno zio da cartoon giapponese. O sognamo la collega che ce la darà si o no, chissà! Oppure l’aperitivo, come mia nonna per il vespro, immancabile, accordiamoci dove e quando! C’è di peggio perché parliamo bevendo fino in fondo i servizi di cronaca ormai cronica dei tiggì, doverosamente nell’ordine, poco prima dei leggendari salvataggi del delfino Flipper, che forse arriva spiaggiato alla pensione. E fossi normalizzato come tutti gl’altri dovrei pure arrivare a chiedermi che fa la politica in questi casi perché, in fondo, a che serve la politica? Dov’era la politica se nemmeno un Flipper arriva più alla pensione!? E via di questo passo annaspando per la sensazione di galera che ci portiamo dentro, facciamo altro che presumere ci abbiano legato mani e piedi per giustificare la nostra, spesso vile, percezione di impotenza ai piedi delle nostre pigre illusioni di vittoria. La casta. La chiesa. I giornali. L’effetto serra venuto da Marte. L’onnipotenza imperiale dell’impero austroungarico. Senza sospettare un istante che ci siamo ingabbiati con le nostre mani standocene seduti nel nostro stanzino sempre troppo piccolo, nonostante gli osannati miracoli di internet. Ché tutte quelle cose siamo noi, e se sono lì, ce le abbiamo messe noi. Se sono lì, è perché hanno occupato un posto che non abbiamo preso noi che potevamo essere meglio del peggio che ad ogni votazione lamentiamo ci tocchi in sorte. Se sono lì è perché non glielo abbiamo impedito e lasciamo fare. Con le nostre scelte senza sapere quel che si votava, quello a cui dicevamo di sì. E taluni la chiamano disinformazione. Tutte le volte che restiamo anziché andare...andare nel mezzo della festa a offrire le nostre opinioni in merito e dire in faccia a quello impomatato -Ma che diavolo stai dicendo?

martedì 11 marzo 2008

La gabbia

Caro Diario,
anche questa volta ho trovato un cortometraggio nel mio cervello che te lo voglio proprio raccontare. Questa mattina mi sono svegliato con la sensazione di essere un altro, di voler parlare con la bocca di un tizio che non conosco, ricordo appena sfumato il viso, forse l’ho incontrato per la prima volta la notte passata, in sogno, e perciò mi sento stanco, dentro, forse come lui, o forse solo perché non l’ho compreso esattamente, mentre mi diceva andando avanti e indietro, parlando tra sé, come se io non esistessi…”Manderei volentieri un fax a tutti i miei amici da quest'azienda del cazzo per avvisarli che sto chiudendo, sono stanco del nostro mondo… Stressato, come un elastico in mano ad un bambino. Penso traslocherò!… Bella, e dove!?…
Lontano. Non importa quanto mi costerà, sbaracco, liquido e salute a chi passa. Già! Un fax della mia azienda…E come lo mandi? La segretaria l'ha gettato dalla finestra, mentre eri rivolto con lo sguardo perduto appunto, oltre quella finestra, per un istante… scollegato dalle fatture organizzate in pila, per essere scartabellate domani mattina; dal sedere di tua moglie, che come ferma carte sopra il tavolo almeno pesa per qualcosa, dai suoi finti occhiali da intelletualoide di cartapesta; da quel piccolo innocente bastardo d'un cellulare mai sazio di attenzioni, che quando non chiama lui sei così in ansia che devi prenderlo in mano e cullarlo. Romanticismo di nuova generazione, o erotismo autoindotto, ma sempre roba per la nostra ' stra-new generation '. Stavo ad osservare i fumi della città tra il vuoto delle luci spente, e il sibilo, o forse il fischio, del silenzio lungo i corridoi. Era da poco arrivato l'ultimo campanello delle sette, che gli impiegati erano evacuati in massa nel parcheggio dietro la stazione. Due, forse tre secondi in solitudine, e il volto languido della crocerossina tuttofare, da dietro le mie spalle, si riflette sul vetro. Inarca un sorriso e poi…patapaaam…molla la presa delle labbra ed inizia a fustigarmi. In realtà stava solo caricando la balestra, altro che sorriso. Colto di sorpresa non l'ascolterò che verso la fine, al momento del fattaccio. Nel frattempo mi arriva quel suo solito profumato languore, ora però deformato da un inconfondibile stile sadomaso. E bla, bla, bla…ma come le agita il ventre, e le natiche, quel braccio esile buttato con tanta insistenza nella tua direzione. Minaccioso, o semplicemente carnoso? Dovrei sentirmi preoccupato? Dovrebbe fregarmene qualcosa ?… E ancora bla bla bla…perché? Perché non scaricarle addosso il ferma carte, le fatture, il cellulare dentro la scatola che è diventata questa fottuta azienda? Perché ti ci butteresti dentro, anche tu?…bla, bla, bla…E' innocente, lei! Si certo… Ma chi?… non ci credo, via! Aspetta e spolvera per meglio scivolarti vicino. Avanzare ‘on the top’. Tutti cercano il ‘top’, se tu vuoi rovesciarti di sotto, sei malato. Questo bailamme mi confonde…gettarmi addosso a lei? Non voglio perdere più nulla!…violentarla con la cricca di quell'ammasso di rancori, fratelli minori dell'odio, che ti sei calcato in gola da quando sei nato? Merita forse questo…che c'entra la poveretta?…voglio finalmente perdere tutto! Disintegrarmi a pochi metri dal cuore del sole…prima i vestiti, i capelli…infine l'anima. Basterà a pulirla? Aspetta, non essere avventato. Probabilmente nel casino non mi distinguerebbe dal tuo caro divano in pelle, o le faresti schifo come quel mozzicone spento. Sei un mozzicone spento! Non ti puoi nemmeno lasciar calpestare mentre vai a fuoco sul tappeto. Entrerei in lei, costretta ad inalarmi come umido fumo passivo. Odore di vecchio stantio.
Diceva press'a poco che avrei dovuto iniziare a pagarla da quel mese. Magari metterla in regola, farla emergere...emergere? Non l'ascoltavo...Cercava di fregarmi quella.
Deciso ad ignorarla, distraevo i pensieri fissando la città formicolante per l’ultimo frenetico spasmo della giornata. Il ritorno a casa. E' sera anche oggi... e quei fumi...il tramonto li rende ancora più belli e intensi. Il mio pensiero cade sempre più stanco. Ho voglia di lasciarlo rotolare, giù, giù, fin dove arriva. Lì sarà il mio posto. Prima o poi un fondo mi fermerà! Oppure no, fanculo, la melma scura che pompa nel mio cuore continuerà a spingere, e io con lei, a sudare, prodigo ai comandi, per non rallentare le attività umane. Pala in mano, a scardinare il miraggio del fondo, quella vecchia promessa di ogni dio. Già, forse. Fatto sta che quella non mira di centrarmi la nuca con il fax! L'ingrata! La pazza isterica! E io che volevo provarci. Sono ancora il capo, in fin dei conti…”

giovedì 10 gennaio 2008

La faccia di Babbo Natale

Caro Diario,
se sei da queste parti fermati un po’ con me! Scaldiamoci un po' insieme e fammi sentire più forte che va tutto bene, che là fuori non è poi quel gran casino che sembra e qua dentro qualcosa è cambiato. Perché non sono quello dell’ultima volta. Perché il mio cuore adesso è una strada di periferia dopo la pioggia, e anche quando bacia non sempre chiude gli occhi. I sentimenti ovviamente non c'entrano, conosci loro, e conosci lui: è fatto così, deve vedere, capire, confondersi e raccontarti tutte le verità a cui a stento riesce ad aggrapparsi. Si rifiuta di credere seriamente alla vita, correre il rischio di non stupirsi una volta ancora o peggio che, chiusi gli occhi, si farà l'ordine dovuto al soldato meritevole di piangere sulla propria tomba. Dicono: "Meno male che ci sono i soldati!", quelli che ogni mattina prendono a spingere la carretta fino anche a sprofondare nel fango... Sai, lo penso anch'io che siano una sorta di eroi, ma osserva quell'uomo laggiù con la giacca imbottita di piume e polvere di cantiere; quello da cento chili almeno che non vede le vetrine, tiene la strada tutta nei suoi pensieri. Si toglie un cappello di lana per dieci ore stretto fin al collo. Cerca l’aria, adesso... Rosso in viso, l’ha bruciato un sole freddo che ora, spento e così lontano, in staffetta con le migliaia di luci stese nei soliti disegni natalizi volanti sulla strada, gela fino a scoppiargli nelle vene quelle poche lacrime che non hanno mai osato ammorbidire il suo volto prima d’allora. Pochi passi ancora e due marmocchi, una moglie incinta, gli saranno intorno per spogliarlo anche di questa giornata assurda, come ogni sera, da Agosto. Da quando sciogliere i bottoni è diventato via via sempre più faticoso, lungo, meccanico, una parola vuota. Perché la bella stagione se n’è andata e ne servono tanti di bottoni se porti vestiti scadenti. E perché da allora sopporta d’aspettare l’ultima paga e non gl’è rimasta più nemmeno una parola da spendere, una giustificazione da sbottonare sull’istante. 'Il prossimo mese andrà meglio...', giurava inginocchiato alla pancia di sua moglie. Lo stesso, in banca, pochi minuti fa, sul ventre gonfio del direttore, e senza mai essersi calato una volta i pantaloni al cospetto di quegli occhietti avidi, ingentiliti appena da due lenti esageratamente spesse, dietro le quali ti scrutano socchiusi, e protetti, quasi a metterti in guardia che di lì non si passa. E intanto lui rischia la casa; l’altro solo l’immacolata concezione di un discreto affare!
Era estate quando tutto è cominciato e pareva anche tollerabile. Passerà in fretta, si diceva. E poi le giornate son così lunghe che gli restano due ore buone, la sera dopo il turno, per toccare con mano la terra di quei due campi di fronte casa, mescolati con lo stesso sangue di tre, forse quattro generazioni. Due campi rendono meno di un 'future', ma almeno si evita di comprare la verdura con quel che costa. Un po’ dimenticare, molto lavorare, ma è contento e perché no, sazio. E’ roba sua che non gliela porta via nessuno. Ci vede ancora suo padre sotto quell’albero, a far merenda con due, tre avventori: pane, formaggio, salame e un fiasco di cabernet. Nulla per cui servisse varcare la soglia di un supermercato. Vien tutto da là dietro. Dalla stalla. Dal camino… Un sguardo intorno e lo prende sempre con un brivido quel suo piccolo orizzonte che sconfina dietro l’albero, verso il sole, come un ponte piantato ai suoi piedi e fino a dove lui non hai mai potuto, o mai voluto sapere. Importa soltanto che il tempo è scorso e arriverà anche dopo di lui, ai suoi figli. Si chiama speranza e funziona a meraviglia, meglio di qualsiasi stupefacente se solo sai un po’sognare. Però, oggi, anche il tempo s’è arrestato schiacciato sotto le macerie del suo stesso ponte. Nascosto dietro il fumo delle parole chiave di una congiuntura storica ancora una volta sfavorevole a quelli come lui: "Ci dispiace signore, ma non è colpa nostra. Non dipende da noi. La banca non può aspettare oltre quella data"... e lo sfiora il dubbio d’aver sbagliato tutto. Liquidare i fratelli che non hanno voluto sentir storie, ma solo tutto e subito. Sistemare la casa che marciva da cent’anni. Ma che altro poteva fare? Con un lavoro a tempo indeterminato...E la famiglia, dove l’avrebbe piantata? Eh, perché una famiglia si pianta ancora, da queste parti! Per la prima volta ha una paura che gli verrebbe da strapparsi anche i vestiti per provare a levarsela di dosso. Ma ormai è lì, cristallina, come il freddo che spira dal buio del campo; viva, come i pochi fari che si scorgono appena sulla statale che taglia l’ignoto scuro e profondo, laggiù. E se oggi poteva andare peggio, la sorte, di certo, non s’è tirata indietro, fino a procurargli una vergogna tale di se stesso e un rancore in gola da bloccarlo sull’uscio di casa... - Guardalo bene, Caro Diario!- Come non bastasse è lì che si fruga la testa se trova un faccia accttabile e un certo coraggio per guardare i loro volti. Devi sapere che in fabbrica era corsa una voce degna di fondo sui padroni, perché così si chiamano nel nordest, "Paroni", che ogni mese avrebbero intascato comunque la loro ingorda fetta. Sei, sette e più, quanti sono diventati, i padroni? Se conti i figli, vedi la filiera di pidocchi appesi al ramo che tra poco tocca terra. Pare strano, ma non smettono mai d’ingrassare, mah!…e mentre l’albero lentamente muore, un piccolo albero perché qui si lavora in pochi ma buoni, agli Stracci di tute blu con famiglia solo la polvere o trucioli di ferro. Così s’era levato un malessere borbottante, perché il pauroso si provava a frenare il compagno di indole votata alla rivoluzione dopo anni incerti di fiducia offerta al destino, a dir il vero un po' sovrappensiero, e caparbiamente sbeffeggiata da una femmina che, le mancasse quel tono da diva in copertina, si crederebbe pure una signora per via del nome altisonante: "Economia Globale". E a mezzodì montava il consenso sull'idea di uno sciopero duro e casereccio, ma nulla si sarebbe fermato prima che qualcuno arginasse Gino, il vecchio anarchico prossimo alla pensione risoluto sul momento a far saltare qualche testa. In fin dei conti un re francese lo tolsero di mezzo così e per gli stessi motivi, no? - Ma va là, ma va là! Teston! Te si un pare de fameija, no sta far el mato! No sta far el mato, par piaser! E po’ ze cambià i tempi! Parlemoghene, no?! El sindacato...’ - No, dai! Assa star i commercialisti, dai!... - E una rivoluzione abortita... - Ah! Ma va in mona ti e tutti quei come ti, bestia!- richiede almeno che qualcuno venga mandato a quel paese. Sacrosanto! - Hai sentito cos’ha detto a Nino quello sbarbatello sceso dagli uffici di sopra, se scioperiamo?- parla quello forbito. - Che no semo niente! No ze afari nostri e se no me va ben cussì, fora da e bae! Fo-ra-da-e-ba-e!- sempre quello forbito, ma per incidere profondo... - A mi!... Dopo tuti sti ani qua dentro, sto capanon, a conzelar col fredo e cuzinar col caldo...- e ad un anno dalla pensione.
"Fora da e bae!" scaraventato in faccia a Nino il sobillatore di anime e capre, il mezzo sindacalista, o sindacalista pieno, ma rimasto un secolo indietro. Dove quelli che la causa non è un lavoro come un altro, o soltanto quello, lottano per una sopravvivenza degna di un uomo. E s’è perso...Abbassando il capo, le gambe che non tremano…figurarsi, le sue! Però le mani, quelle sì. E strette a pugno le costringe a fermare la testa che scoppia, un attimo prima di perderne il controllo. Prima che arrivi la pazzia che rovinerebbe molte vite. Poi il silenzio. La marcia ingloriosa della vergogna che affiora dal fondo dell’impotenza più sporca, bituminosa…se n’è andato senza neppure a sbattere una porta.

I tempi cambiano... I ponti crollano. Babbo Natale arriva sempre. Le lucine per le strade aumentano. I negozi si riempiono di favole e il nord est è sempre il solito stretto campo di 'mezzadri', tanti, e padroni, in lieve aumento demografico. I vestiti non nascondono niente.

Ora che sei qui, caro Diario, aiutami a capire se i tempi sono davvero cambiati, fammi sentire perché anche quello è un uomo, ancora lì, una mano sulla porta di casa che un cane ansimante già fiuta dall’interno, mentre delle voci squillano in corsa verso di lui: "Ciao Ninoo!"

E Nino ha paura