venerdì 25 aprile 2008

Quell'Amore

Amore
vive per sé
preso in un circuito
esistenziale
Il tempo
non ha cuore
e così lui corre
cieco
e mai
tranquillo
muore.

Fuggi straniero
per città inesplorate
cercando un seme
che coltiverai altrove
Annusando un profumo
che da lui ti porterà lontano
e verso un altro fiore...
Ma il tuo respirare è vano
Soffocato questa sera
in un sorriso che non scordi
e ti cerca con lei...
Vien appresso a te annunciato
dalla voce sentita un tempo
dentro fin dove il mostro s’è svegliato
Quel giorno in cui un parola bastava
a spezzare in due il mondo
Tu.....................Lei
e un addio al confine.

Vien appresso a te
Guarda Attende... la crepa
su quel muro di pietra
prima dell’oblio
E scava ricordi che ti sei taciuto

Lacrime infine

domenica 20 aprile 2008

Sopra un treno

Scollato dalla realtà
senza colpe senza saperlo
ti ritrovi in un binario parallelo
a viaggiare sopra un treno
da cui s’intravedono altri passeggeri
dentro ad altre carrozze
verso altre stazioni.
Distratto dall’illusione
frastornato nel movimento
sei convinto che tu
proprio tu
stai andando dove chiedevi
e sfidi l’attesa leggendo
nei volti che scivolano accanto
i motivi delle gioie e delle tristezze
che disegnano sulla pelle
un senso al prezzo del biglietto.
Ma distolto lo sguardo, in un istante
quelli sono già perduti
lungo rotaie inghiottite dal tempo...
Era mai accaduto che svanissero, così?
Le valigie che sbattono
le voci rinfuse in un sibilo
carte di giornali che s’accartocciano...
niente, ma dove?
Ehi, tu! Svegliati e fa quello che devi!
“Documento di viaggio, prego”
L’uomo col cappello del capitano è impaziente
“Mi sente? Prego, favorisca il biglietto!”
Ora, mio caro stupefatto passeggero
hai indugiato troppo a lungo
in questa stazione sparsa
di mozziconi ancora fetenti
dei tuoi dubbi sul ritardo di lei,
veditela con lui!
Vorresti esser lontano con loro?
Esserti procurato un biglietto simile
e scelta una carrozza con sedili imbottiti?
Ti rendi conto che hai vissuto
nell’illusione ottica di due treni
che sfrecciavano l’uno accanto all’altro
mentre il tuo, in realtà
chissà dove chissà quando s’è fermato
in una città di fantasmi,
che si divertono a giocar con te
perché sono belli, ma anche morti
sono ricordi e nient’altro più?
Ti nascondono una verità misera e secca.

Lei qui, non arriverà


sabato 19 aprile 2008

15-4-08

Qualche volta i giorni mi trapassano come una scarica e mi ritrovo steso al suolo a faccia in giù con poca forza di rialzarmi e mi trascino. Li conosco come già visti con l’umore a pochi centimetri d’altezza, quei miei giorni.
Certi giorni passano che mi guardo attorno chiedendomi confuso se non ci fossi già passato, se quei volti non mi abbiano già detto quella cosa. A lezione chiedo se quel tal posto è occupato, o forse lo era ieri? Il tizio dell’edicola ogni mattina è distratto a leggere borbottando un titolo in uno scaffale sopra la testa, e impiega esattamente lo stesso imbarazzante tempo di sempre a reagire alla porta che sbatte e lanciarmi il solito. Mi saluta chiamandomi ‘caro compagno’ con un repentino tono ufficiale, saltando sulla sedia quasi a giustificare quell’irriguardevole ritardo, ma il più delle volte solo un ‘ciao caro’ che tanto basta a riconciliarmi col mondo appena inizia la giornata. Porta un cappellino con visiera verde sbiadito e occhiali grandi quanto una maxi-pizza, così spessi che offrono un senso alternativo all’idea di prospettiva. Ha il suo mondo di carta dove ficcarsi, una moglie e un cane che lo porta ad uscire tre volte prima della chiusura, grazie soprattutto alle irridenti parole sulla targhetta ”Torno subito”. E’uno che sembra scemo nel modo stralunato in cui si scorda di te, nell’istante esatto mentre stringe la mano e la ritrae con la monetina, ma ti rimette in strada col dubbio di essere precipitato con le tue stupide conclusioni. E’ lui in ritardo o sono i tuoi neuroni che per la fretta di arrivare, ora, sono troppo spompati per capire lui? Forse non è che un po’ scemo per via di quella faccia accigliata e un po’ pagliaccia che, nel dubbio che instilla, nasconde qualcosa e probabilmente anche a lui ignota.
Incontro giorni in cui per la strada i volti della gente sono una sorpresa come tanti pesci in una rete. Storie che vorrei conoscere e mi limito a raccontarle a me stesso per gioco e per trovare un senso ultimo di tutto quel su e giù lungo i marciapiedi, mentre passo oltre e le urla lamentose di una donna mi sbattono in viso come una folata di vento caldo, attraverso una finestra spalancata d’un colpo. Una madre in affanno perché il caffé sale e brucia , un bimbo le piange addosso appeso al collo e il marito latita in un’altra stanza inseguendo le ultime sul calciomercato.
Una finestra, una vetrina. Una confusa e piena di gente con gl’occhi gonfi in fila per la colazione con cappuccino e brioches. Un’altra, impolverata e stantia, è il negozio di Horus. Si nota, certo, con quello scaffale di legno dove si ammucchiano, in calcolato disordine, borracce di latta bucate e ammaccate nella prima o seconda guerra che, d’istinto, vorrei sfiorare quasi per ascoltare tutte le bocche che da lì hanno sorseggiato del vino con una punta d’aceto, grappa cotta in una cantina e forse troppo o soltanto acqua. Cimeli vari di riflessi che la polvere ha ammazzato, compresa una maschera antigas in cui ogni giorno intravedo un gigante topo morto avvelenato e quella lontana sensazione che mi ha messo lo stomaco sotto sopra fin da piccolo, per l’unica volta che vidi davvero un film stile “The day after”, ma che ancora non riesco a togliermi quel suo gusto da guerra fredda, ferroso e di calcestruzzo rosso pallido arrugginito al tramonto, come i veri ’70 che ho sfiorato per un soffio.
Una vetrina dopo l’altra e mi specchio spettinato in un riflesso ombra al retrogusto del primo giro di caffé e nicotina. All’interno una donna porta una cuffia a barchetta arenata tra dei capelli ancora agitati da una tempesta di sonno. Serve pizzette a dei ragazzini che se la ridono tra loro senza badare a lei nemmeno quando pagano, mentre il viso del mattino le disegna un lieve sorriso che non pianterà alcun ponte perché nessuno, forse, lo noterà mai abbastanza. Magari domani, magari andrà diversamente. Vado oltre, mani in tasca, il mattino ha l’odore dell’asfalto che s’asciuga, ma respiro guardando il cielo terso e, per qualche secondo, nei miei polmoni non entrano che il sole e le cime dei pochi alberi verdi stropicciate dalla brezza di lassù. Evasione. Immaginazione. Non importa. Mi sento pieno così, nei giorni in cui qualcuno manca. Perché ci sono dei giorni in cui l’improvvisazione della vita suona un jazz che non è consentito resistergli oltre, devi prenderla e ballarci dentro fino alle ossa.
Come basta una sera, uguale a ieri soltanto, a scordare le corde del jazz e chiudere ancora le speranze proiettate nel mio mondo un po’ diverso, perché in democrazia se si gioca da una parte, si vince e si perde; e si perde che alla conta dei punti ti mancano anche le gambe per cercare un’altra fetta d’anima da rischiare in una nuova partita. Speranza, impotenza, lacrime, la sconfitta ha un sapore atavico che mi ricorda gl’occhi bassi di mio padre in tuta blu che bruciavano fino a poco prima, sopra un pagina di giornale; rimanda alla figura possente e dritta di mio nonno contadino, ancora giovane e comunista, che alza le spalle una volta, e una soltanto, per non vedere il muro dietro de sé e andare oltre. E mi avvicino inesorabilmente alla dispensa comune di consolazione preventiva, perché una madre come mia madre, comunque vadano le cose, ucciderà il vitello grasso perché la vita va avanti e così è sempre stato. Sono quelli che la storia l’hanno nel sangue e non rinunciano al sogno di cambiare il loro pezzo di mondo con l’opposizione messa tutta a pompare nel cuore, anche se rimane impressa nel loro destino e poi, il resto contro, oggettivamente, era una valanga.
Arrivano sere così, che la pelle ha trasudato ogni umore fin dall’alba, fin dall’apertura dei seggi con la responsabilità d’essere presidente e la fanciulla commozione del militante. Acre tensione che non vedevo l’ora di scrollarmela di dosso come un serpente la sua vecchia usurata faccia…Ieri sera girava pure qualche nota blues, stonata dal vino di colore denso come sangue, le risate starnazzate a tavola che tanto vale ridere o piangere, se hai delle radici a cui stringerti aspettando che la delusione sia finalmente sazia di illusioni e ti abbandoni a ripartire in pace.
Giorni come questi possono sembrare tanto pieni che al tramonto non ti aspetti nient’altro perché cos’altro ancora potrebbe accadere?...
Che lei venisse dal campo, dalla sterrata, tra la poggia sottile e scura, altra musica di un ospite inatteso, stretto in un lungo cappotto bianco, assorbente di luce come a scherzare con una notte d’ombre e minuti specchi d’acqua. Una donna che aveva nei capelli e negl’occhi quel velo bagnato di chi vaga bussando qui e lì, in cerca di una porta aperta per scappare il temporale annunciato.
E’ apparsa sulla porta con un certo suo sorriso che parla allo straniero, pallida in un viso chiaroscuro scavato in certe docili ombre, come ricordo di un tempo lontano, che stavo per dirle
-Davvero ci conosciamo?

Da qualche ora non piove...

Da qualche ora non piove
e sulla strada scura giocano
colorati e tremuli barbagli
caduti dalle vetrine, dai lampioni
dalle poche finestre ancora accese.
Sono i vetri di una chiesa
esplosi in quell’universo
che mi cingeva
ragazzino
sopraffatto anche nell’anima
dalla sua confortante
monolitica
grandezza
Adesso, basta un lieve vento fresco…
Porta con sé lo sferragliare
liquido di un tram
La corsa di un’auto
che fugge via
nel fruscio di un’onda
che ritorna per dissolversi
dov’era partita
Uomini sui marciapiedi
a litigare per inerzia e futilità.
Suoni abissali
confusi
in un gorgoglio
catturato ad un angolo
della mia città
Sembrano giungere da molto lontano...
a disperdere i miei pensieri
A lasciarmi vuoto di tutto me stesso
Qualcuno
chissà dove
avrà spalancato una porta
e il mio mondo
scivola via
scomparendo
diluito nel sospetto
che il nulla pesi
quanto l’universo intero
E che l’uomo
è
forse
la sua opera bella
ma si guarda allo specchio
ignorando
che di lui
esiste
solo
il riflesso
di un sorriso divertito
del caso

venerdì 18 aprile 2008

Bestialità

Inforna indolente
Nel forno caccia una bestemmia
per oggi...per ieri, il fornaio…
Si dice convinto che un giorno
non possa durare uguale una vita
Sopportare il sacrificio d’ogni mattina
per amare l’identico meccanismo
che scatta d’abitudine
perchè tu sia libero
da te, per loro
per le loro braccia
che ti chiedono come ieri
d’entrare nell’imbuto verso la fine
che ti va via via più stretta
Condannato ad una speranza
che cala appesa ai seni di sua moglie
che lo vede cambiato, una pancia sul divano
Ciabatte puntate...laggiù, c’è pur sempre la ti-vi!
Finisce il film, nel video scorre come un rantolo
S’è addormento, l’epitaffio di quel che era prima...
Bestemmia sbuffando una sigaretta
un cornetto caldo in compagnia
Eresia di zucchero e nicotina...
Alza lo sguardo e sentenzia
l’ennesima bestialità
’Bene...anche oggi
l’alba è arrivata!’

mercoledì 16 aprile 2008

E' arrivato quello del gas!

Quando il nord-est si sveglia, lavora. Quando il nord-est dorme, lo fa perché il giorno dopo lavora ancora. Sarà pure una virtù leggendaria e, se vera, magari necessaria, comunque sia lavorare stanca, davvero; e non solo. Se non ti muovi con le dovute cautele rischi pure di lasciarti prendere dalla realtà e rimanerci secco, perché sono pochi gl’euro che ti passano in busta e con quelli puoi distruggere molti dei desideri che ti si sono accumulati nel frattempo nel cervello e i desideri frustrati si chiamano anche col nome piuttosto sgradevole di invidia e... e se vi racconto che negl’ultimi tempi ho lavorato non è certo per stupirvi, per lasciarvi increduli di fronte alla mia finalmente trovata remissione alla fatica! Quei soldi mi servono quasi come fossero aria, perciò sono salito in sella ad una bicicletta nera arrugginita dalle botte, con i freni di mio nonno ad asticelle di metallo incernierate, e di gambe ho preso a girare per centri di piccole città che crescono. Un Tetris in calce colorata fetalmente rappreso attorno ad una chiesa, un municipio ristrutturato di fresco, una farmacia, qualche baretto magari costruito pure di recente, ma con l’odore del vino, del tabacco fumato sulla panca di legno all’ingresso e del vecchio dentro con un gomito sul banco, chiedendo se molto gentilmente potevo leggere un cacchio di sporco contatore del metano, che non di rado sta incastrato dove la fantasia nemmeno immagina. Se l’è decisamente scordato fintantoché bussa uno come me, col mio cartellino di riconoscimento: "Salve! Sono quello del gas!", e quello del gas è lo stesso che fa arrabbiare anche i cani più mansueti così, di solito, eravamo in due a cercare per cortili frugando tra le siepi, in due a correre uno avanti all’altro e non certo per giocare a guardie e ladri, ma uno solo ringhiando con l’avido pensiero puntato sulle mie chiappe.
Chi mi conosce sa quanto tema l’alienazione che solitamente si prende sgobbando come fosse una malattia, anche se, lo ammetto, oramai non è nel lavoro il luogo più scontato dove si acquistano certe pessime abitudini. Per esempio: uno studente d’ingegneria rimane un soggetto comunque a rischio, e per evitare di abbandonarmi in un mondo parallelo, fingo di non essere uno studente d’ingegneria, oltretutto con scarsa dedizione alla causa, e mi convinco di tanto in tanto di sapere cosa significhi lavorare, raccontandolo.
Il mio guaio in definitiva sta nell’immaginazione. Nel vedere le cose attraverso, che magari neppure sono, però costruisco lo stesso una dimensione degna di loro, involontariamente, a volte con uno sbuffo, perché entrare nelle case all’improvviso, un giorno piuttosto che un altro, è un po’ frugare nell’intimità umana. Nemmeno ti pettini se non aspetti visite, no?
Sono trascorse due settimane dentro e fuori un ciclo di vite d’alti e bassi, spesso tirate in una media desolante di vuoti da seppellire, o solo nascosti, oltre mura di cinta da misurare col naso all’insù.
Tanto che, semmai abbia interrotto alcuno dei rari padri a giocar sull’erba con i loro piccoli e in barba alle previsioni di una bolletta salata in arrivo, ad un certo punto ho dubitato fossero mandati in scena da quelli della 'Mulino bianco' apposta per me (Ho sempre meditato d’avanzar qualcosa dal conto che hanno aperto con me quand’ero un ancora bambi!).
Com’è possibile dimenticare la cucina di un uomo sulla sessantina che pare abbia ispirato figure mitiche come Obelix, che gioca con le dita tra le bretelle, mentre con un mesto sorriso simile a quello di chi si ritrova solitario dopo una lunga splendida festa, mescola del ragù sul fuoco e dice: "E’ troppa carne, ma mi creda, lo faccio solo per me!". La solitudine per qualche istante lascia uno spazio al cibo, vero...
O quella donna che sente il tocco del campanello, io non sento lei, di certo sarà la solita vecchia sorda che tenta di convincermi che sono un poco di buono, perché ‘quello del gas’ è passato la mattina precedente, e mentre io insisto, al campanello, si sporge dal terrazzo, gracile al vento, sistemando il fazzoletto sulla testa per coprire un’assenza che non è semplice calvizie, con le poche forze scovate nell’agitazione. "Mi scusi", dice, "Sto male, ero a letto. Potrebbe saltare il cancello? Sa, vivo sola e non ce la faccio a scendere. Mi scusi tanto, tanto...". Si figuri... E salto in tutta fretta quel ferro scrostato per togliermi alla svelta il pensiero del fazzoletto. Intanto il sole di un maggio pianto e non previsto continua a picchiare come prima, su tutti, e due civici in là tiro d’abbasso uno spettinato grigio e bolso che mi chiede d’evitare di rompergli le palle chiudendomi gentilmente la porta in faccia, ché lui è di turno la notte e alle undici del mattino ancora dorme. Che lo lasci in pace, diamine! Giusto...
E di civico in civico, conto fino a dieci e non ci credo, perché la strada è già finita e i palazzi alti abbastanza sono lontani, s’affacciano sull’altra via. Sull’uscio padri o figli che, nonostante un sorriso di pace, butteranno i vestiti sporchi di calce e pittura solo a sera; altre volte, madri o figlie che scordando i minimi convenevoli, indicano che… ”E’ di là!”, con un dito o un cenno del capo. E tu, ‘del gas’, passi incrociando una famiglia intera che aspetta nervosa con la speranza che si faccia a tempo a buttar giù qualcosa. Rumeni, albanesi, marocchini, ma soprattutto italiani, tanto per fugare qualche dubbio, annidati come pidocchi in stanze ricavate a nido d’ape. Sono tanti, forse troppi in quel posto, famiglie intere per le quali è quasi l’una. Alla fine un profumo di stufato, di ragù, bolle anche nel peggiore dei casi. E il fritto!…e chissà se saranno cinesi. Venti? Trenta? Quelli di ieri nel casapannone, nemmeno si sono girati a guardare chi osasse suonare la campana, chini, non gli sarà concesso, ho pensato. S’avvicina una bimba dagli occhi a mandorla e tanto brevi, e parla, parla, parla a lungo…mi confida quasi l’intero album di famiglia, e chiama sua sorella che è appena arrivata da una regione contadina di una Cina che non saprei neppure se esista, e non afferra una fregola d’italiano. Ma perché l’avrà fatto? Mi chiedo…poi un inchino, e un altro ancora, intendo che non hanno capito nulla, in fin dei conti sono un mezzo becchino, non lascio scampo, i numeri sono numeri, e soldi da pagare…piuttosto mi crederanno una sottospecie d’autorità giudiziaria con il tesserino appeso e un computer in mano, e mi pregano quindi d’entrare. Trovo quel che cerco e vado oltre. La bolletta arriverà malgrado l’inconcludente mediazione culturale!
E due settimane se ne sono andate che tante altre storie avrei, ma oltre, adesso, il mio fegato già provato dal vino e dalla birra ne risentirebbe fatalmente. Dodici giorni dalle 8 alle 20. Mai il tempo e la voglia di un giornale. Fuori dal mondo, in un altro mondo. Così l’ultimo giorno decido di rimettermi al passo delle notizie più recenti, almeno il governo, dai che ci sarà ancora! E c’era... E con lui Mastella, malgrado le piaghe da decubito sul sedere. La prima pagina se la gode dapprima LucaCorderoDiMontezemolo mentre butta un occhio all’orizzonte con fare sognante. Vede il morto di fame che finalmente spende! E credetegli, sorride e sta in coda alla cassa! Poi…ecco che esce a saltelli da un buco di luce, ha una tìvì al plasma e tanti frugoletti che gli girano intorno, si appendono alla giacca. Sono impazienti che non stanno più nella pelle dall’emozione! Tremila euro per la tìvì è stato un vero affare per tutti. Anche meno per il negoziante che non se li gode più di tanto, dovendo già pensare all’altro in fila con la lavatrice. E via, via, uno in coda all’altro a costruire il sistema paese!
Mai nessuno che tiri la giacca a LCDM per ricordargli che rappresenta quelli che dovrebbero pagare il morto di fame, quello sfigato d’un pellegrino che persiste testardo a non togliersi mai la fame, o almeno qualche sfizio…il famoso anello mancante, altro che cuneo fiscale.
E nel fondo, Bagnasco, subito in serie a LCDM. Molto autorevolmente confessa come da un po’ di tempo sogni poco, non visioni, più che altro suda per via degl’incubi; è come se mezza Italia volesse metter su famiglia senza invitarlo alla festa, e con il solo pretesto che lui non imbrocca la lista degli invitati. Non c’entra proprio secondo loro…
Mi sento più esausto di prima, comincerò l’aggiornamento l’indomani. Sorvolo sulla seconda pagina dove arrivano i nostri con Prodi in testa, ma in mezzo, o ancora in testa. Finisce fuori dalle file laterali, si son fermati quelli in prima linea e non hanno avvisato. Nel parapiglia tutti vociano, l’uno finisce addosso all’altro compagno che ha frenato bruscamente... Alla fine s’è persa la testa…

Cari miei,

io vi propongo un giro a tutti, a chiedere: "E’permesso? Leggo i contatori del metano..." .

domenica 13 aprile 2008

Anime seccate


E’ stata una donna sola
che dalla natura ha ricevuto amore
in cambio d’un soffice sorriso
Una lametta usata con un riflesso
“Grazie tante, ripassa...
la prossima volta non ti ferirò”
Ti ha seccato il cuore con una cannuccia
mentre eri al volante
e distratto
badavi alla strada
Ti ha lasciato spompato
in un parcheggio dimenticato
anche dalle signore in rete e gonnella
Sull'asfalto
disteso esanime
sopra la tua anima sì, sola
Sotto una luce rosso-gialla
del lampione all’incrocio
Piccoli sassi
che ti pungono
attraverso i vestiti
Il fruscio di auto poco lontano…
Abbracci il terreno
ora è duro
Che rimane?
Una risata cagna verso le stelle
perchè sei fermo, adesso
E ti pare di non aver altro da fare
per il solo motivo che anche mangiare
forse non ha più senso
Sei li, sei tu
non ti serve nemmeno bere
Trascuri le necessità elementari
Sei un mezzo dio
Tu
ti sei svuotato
e sei libero
Da te
da lei
dai tuoi amici
Non...solo
Semplicemente
liberato



(Scritta per un caro amico col sedere a terra)

sabato 12 aprile 2008

I Fantasmi sono tutti immigrati clandestini da cacciare?

Era un buon giocatore, uno di quelli che prendeva le speranze a calci per tirar dritto in porta. Niente falli, né ingiurie, solo tanta forza per correre veloce come gl’altri e molta determinazione. Lui, nato tra la sabbia che scotta come polvere di vetro nel deserto, costretto a vivere dilettante con la sua passione sigillata da una caviglia rotta tanto tempo fa, quella partita non se la sarebbe persa per nessun motivo. Italiani dal DNA griffato ‘razza Piave’ in campo mischiati a marocchini che anche sbiaditi dalla nebbia, e con la griffe riletta in un perfetto dialetto veneto, “ son marochìn”, tradiscono la loro sicura stirpe di “ vù cumprà ”, fin dal primo tentativo di spacciarti un clamoroso gol di mano per uno spettacolare guizzo d’arte povera alla Maradona…”Ze cussì beo che par fazile, no?”. L’erba è bagnata dall’aria spessa mattutina come si conviene da queste parti: si scivola. Uno sgambetto involontario e cade! Vola una bestemmia che riecheggia l’incipit di una chiamata muezzin, e precipita stridendo come un fulmine tra lo stupore generale, sopra l’antico codice di copyright per quella che fu la lingua, il vanto e la gloria di ogni buon druido emigrato quaggiù, nella fondo della padania del mito immortale. “Ciò, ma a che dio te te riferissi? No xe massa comodo imparar el veneto par no ciamar in causa el to Allah, e scomodar queo de altri!?!”. E lui, colto un po’di sorpresa: “No!No! Ma spero che no’l sia mai stato immigrato a Treviso, così no me capisce!”.
E tutti a ridere. Una mano tira l’altra e divertito, stupito quasi dalla sciolta normalità dello scambio d’opinioni, quello del Piave lo aiuta a rialzarsi. Il gioco riprende, e questa volta più leggero di prima, perché anche quella sottile, residua crosta di nebbia ghiacciata s’è infranta.
Lo ritrovo in panchina con il respiro grosso in gola e incapace di nascondere un riflesso malinconico negl’occhi: “ Perché le questioni tra noi non dovrebbero esser semplici come una partita a calcetto, intrecciarsi quasi per gioco come se non ci fosse nulla di fondamentale da capire a dividerci, ché le regole sono quelle, e valgono per tutti i giocatori? E i calci, involontari per inesperienza come questi?”. Abdallah purtroppo a volte sogna e stenta a crederlo, ma viene da molto lontano e, pure, senza biglietto. Da tredici anni è una tra le migliaia di ombre dentro ai piccoli capannoni industriali disseminati lungo l’indaffarata Pedemontana. Uomini dall’esistenza vampiresca, ombre sottili sotto i raggi a mezzogiorno delle luci al neon. Poi il sole li squaglia, scompaiono, e dove finiscano a nessuno importa mai! E’ l’immigrazione fantasma che infesta i nostri castelli, ci accompagna per strada con i sussurri delle leggende che, con il passare del tempo, tendiamo ad accostare alla realtà annullando, poco a poco, il vertiginoso abisso del giusto confine. Nei salotti della politica si discute di lager costieri, di legge Bossi-Fini, di maggiori controlli e pugni dal sapore rugginoso dell’età del ferro, ma dimenticano l’integrazione che non coagula. Casomai non fosse un terrorista o galleggiasse nei pressi di Lampedusa, l’immigrato è un clandestino, o uno che aspetta il momento buono per derubarti e va sorvegliato a vista, o uno che attende per ore nelle stazioni l’arrivo di oggetti già sospettati di non esser bene identificati. Tuttavia, se proprio è ostinato a considerarsi fortunato, si può candidare ad essere forza lavoro bipartisan, indispensabile a pulire i cessi dei nostri uffici. E noi in quegli uffici. Chiusi nelle fessure dietro le tendine. Nel fetido sospetto che potremmo saltar per aria da un momento all’altro. Mal che vada, quasi sicuramente, parteggia per Al Quaeda. E’ così!...tornerà a casa e pesterà a sangue la figlia che scoprirà con mezzo ombelico orribilmente troppo occidentale di fuori la maglietta. E’ marocchino, è certamente musulmano, non lo dice, ma pure lui è così. E se poi sei tanto sfortunato da frequentare un WC pulito da quello, magari sei un tipo sfigato davvero, e spieghi questa tua persistente inquietudine alla segretaria appena maggiorenne con quel culo che ti fa impazzire. Il pretesto per attaccar bottone è lì che tira lo sciacquone. Parti alla grande perchè sorride, ti conferma nei tuoi timori, anzi, è dell’avviso che se fosse per lei, piuttosto, la tazza del cesso l’abbraccerebbe volentieri con le proprie mani per disinfettarla come si deve. Che ragazza d’altri tempi! getterebbe al vento quel prodigio di manicure per salvarci tutti...Ma tu sei uno sfigato da pedigree e quella, appena a casa, ammazza a mestolate madre, padre e fratellino fuor di culla. Così l’è preso di fare quella sera dopo il tg. E’ pazza!?! Eppure che dolce era con te, normale. Una ragazza tranquilla come tante. Un culetto eccezionale mica per scherzo. Perduto... Te la saresti scopata. Anche adesso, se vale a dirlo! Sebbene omicida, plurima, dietro le sbarre...cose che succedono in fondo, seghe che ora vengono, ma domani è un altro giorno. Un altro lodevole culetto siederà laggiù; sperando porti nel curriculum anche due grosse tette, sta volta!...Quel marocchino invece...lo vedresti bene con in tasca un biglietto di sola andata per casa sua. Decisamente! Con lui oltre la porta non ti riesce di lavorar tranquillo come tutti. Normale e profittevole...Al diavolo il tizio barbuto che incontri la sera al bar, all’ora biologica dell’aperitivo. Che significa che dobbiamo assumerci la responsabilità del primo serio contatto con le migliaia di uomini, donne e giovani che lo cercano, per non credersi più ospiti, spesso indesiderati, in un paese a cui vorrebbero poter sentir d’appartenere almeno un po’?
-Loro sono, ospiti!- Eppoi la mena con il politichese sparando cazzate sull’Europa che è anche questo -Per la miseria!-, una via istituzionale alla creazione di un nuovo ambiente sociale allargato, dove le sacche del pregiudizio diffidente siano prosciugate per far posto a uomini con una famiglia sulle spalle! -Per dio! La madonna e tutti i messaggeri dell’apocalisse, quale pregiudizio?- Tasse da pagare, figli da iscrivere a scuola esattamente come capita a noi. E la politica dovrebbe servire noi come loro...Pazzo! Pazzo, lui sì! Pazzo idiota!

lunedì 7 aprile 2008

L'uomo istantanea

Le storie finiscono

Sono scatti raccolti

sopra ferite

e cadute

che mi riportano

lontano da accidenti

sgranati fino alla noia

per sviste d’una felicità taciturna

Di molte vite e dei loro intrecci

con la mia

conservo una foto

e non riesco a raccontarmi

Non un nesso tra i frammenti

Rimango solo io

seduto per terra

lungo il ciglio

sulla strada

di cui non scorgo

mai

la fine

e l’orizzonte è troppo lontano

anche per rischiare balorde congetture

Sono così

un uomo senza storia

perchè sono una collezione di tante trame

che di volta in volta trovano nuovi compagni

con nuove avventure scritte sul palmo di una mano

Mentre altri se ne vanno, altre si scordano...

battute tra due righe

inscenate in piccoli, intimi palchi

chiusi al grande pubblico

E talvolta risuona dal fondo
una voce amica e d’amore...
Eco sincero di qualche applauso

domenica 6 aprile 2008

Come il caso volle

Una piccola donna per caso
Io entro Lei passa
E’ finita la lezione
e la gente sul marciapiedi
verso la stazione
va curva del piacere
che un giorno volga al termine
Ho racimolato degli spiccioli
e mi concederò quel libro usato
e scordato.
-Tu qui? -
spalanca occhi più grandi
dell’ultima volta
- Sul marciapiedi? già! -
I seni assomigliano
finalmente a qualcosa che esiste
- Ma non mi dire! Stai entrando lì dentro? -
Quella la conosco
è sottile come la sua bocca
quando diceva
‘Ti prego, non posso!...’
L’imbarazzo però la scopre
e deglutisce anche la lingua
- Hai ragione, non lo diresti
ma è un bordello
con servizio in camera -
Mi conosci, no?...
Lieve,
spasmo:
è un sorriso?
Tutto in lei
chiaramente sta dicendo
- Hey, adesso sto bene
al mio posto...
E tu non ci sei! -
e credo le piacciano le mie scarpe
perchè tace e le fissa
di tanto in tanto
dietro occhialini nuovi
- Beh, lui ti aspetterà al treno... -
o preferisci mi tolga le scarpe?
- Che cerchi? -
Il tempo perso dov’è andato
- Poesie -
E scosta le ciocche bionde
che le scendono
sulle labbra per gioco
- Ne leggi una per me? -
Come quando le mie per te?
- Perché!? -
- Se le ha scritte qualcun’altro
non mi faranno arrossire
e scappare -
…Come questa di Bukowski?
OK! Avvicinati…


“ Fare l’amore sotto il sole, nel sole del mattino

in una stanza d’albergo

sopra il vicolo

dove i poveracci cercano bottiglie;

fare l’amore sotto il sole

fare l’amore vicino a un tappeto più rosso del nostro sangue,

fare l’amore mentre i ragazzi vendono giornali

e Cadillacs,

fare l’amore vicino a una fotografia di Parigi

e un pacchetto aperto di Chesterfields,

fare l’amore mentre altri uomini – poveri idioti –

lavorano.


Da quel momento – a questo...

potrebbero essere anni nel modo in cui loro misurano,

ma nella mia mente è solo una frase –

ci sono così tanti giorni

in cui la vita si ferma, accosta e siede

e aspetta come un treno sui binari.

io passo all’albergo alle 8

e alle 5; ci sono gatti nei vicoli

e bottiglie e vagabondi,

e io guardo su alla finestra e penso,

Non so più dove sei,

e continuo a camminare e mi domando dove

va la vita

quando si ferma ”


Finto, quel broncio
sensuale più del sesso
- Sei sempre tu! -
E si prende il libro
per chiudere la nostra storia.
Pago e me ne torno a casa
con la gente ancora
sui marciapiedi,
senz’occhi
non sente
le foglie che cadono
sul rumore del traffico,
colato nell’aria,
come ossigeno
avariato.
Non guardano
che distratti
d’intorno
la stessa strada
e forse, neppure,
conoscono l’algebra
segreta che conta e segna
cosa muoia e quanto finisca
in un giorno semplice
e soltanto.
Quanto duri una stagione
per mille foglie che cadono
in un giorno dimenticato
uguale all’altro

Mi dispiace piccola
Ancora una volta
era illusione
Nessuno
l’ha scritta
per te
Nessuno
sognando
di te

5 Aprile, vigilia di compleanno

Delle chiacchiere da osteria
solite e consumate
tra un bicchiere e l'altro
non me ne importa nulla
Il profumo di questo scroscio
fresco a salutar l’inverno
mi ha ricordato l'acqua gelida del Piave
dimenticata sotto il caldo fetore
chimico dell'asfalto.
L'odore putrido
dell'acqua stagnante
che ti penetra fino alle ossa
nei pomeriggi d'agosto
sotto un sole che ti prende
anche dal basso mentre sbatte
sui sassi bianchi
lavati a primavera
Gli alberi ai lati
sopra le sponde
non troppo robusti ma irti
gendarmi disposti a chinarsi
di tanto in tanto
quasi impietositi a sussurrarti
lamenti per quelli caduti
supini sul suo letto
Quel vibrare a sonagli
delle foglie tra le dita del vento
che si diverte a mescolarne
i colori come soffiando
dentro a nuvole
di coriandoli verdi e grigi
La terra polverosa
mai stanca di rincorrerti vicino
sugli argini divorati
dal fiume ingordo, adesso
la vorrei calpestare a piedi nudi
come un tempo
Eppure…
con quali smorfie infastidite
la sopportavo allora
Anche il sole aveva un odore
e si diffondeva lungo
quel letto solcato
di nuvole
rovesciato
sopra la mia testa
Incanalato tra le fitte fronde delle betulle…
Ora, solo ora lo comprendo.
La voce
gli occhi dell'uomo
mi riportano a calpestare al suo fianco
i sassi ammucchiati in apparente disordine
...mio padre
Io e lui
Due ombre a seguire
in silenzio la strada segnata
dall'ultima piena
senza la necessità stringente
di chiederci dove curvassero
laggiù, le sponde in parte franate
e se mai, andando oltre
avremmo lasciato indietro
per sempre qualcosa.
Quel mondo pareva allora
così immenso ai miei occhi di bambino
da illudermi che per frantumarlo
non esistesse una forza.
Nei miei pensieri il magro fiume
strisciava veloce
curva dopo curva
sponda contro sponda
verso il mare.
Così almeno dicevano
E io non ci speravo
Ancora non potevo credere
alla fine e alla morte...
Andava, andava...
Imponente tra gli alberi
agile tra i sassi
Il 'domani' per noi non esisteva
e intanto lui mi scorreva appresso
a gettarsi da dove non sarebbe più tornato.
Ai miei occhi l'infinito
doveva esser il suo traguardo lontano
E s'è asciugato già adesso…
E' trascorso qualche anno
Un'altra sera di vigilia
per un altro anno
e ho capito che ad una delle ultime sterzate
non poche cose ho perduto alle mie spalle
Un mondo intero, rimasto
dietro le sponde curvate laggiù
Sento di non aver più nulla
di cui preoccuparmi
Sono cresciuto
Nulla per cui temere o aspettare
oltre la curva, ad ogni svolta
All'angolo della strada
rasento il muro
seguendo il marciapiedi
per schivare dei folli
anarchici imbottiti di latta
E tanto per ora mi deve bastare.
Dalle strade di periferia...
un saluto asfaltato