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venerdì 5 settembre 2008

Mi chiedevo dove fossero... Ok! Dove sono?

Un giorno Abdallah mi chiese quanti amici extracomunitari avessi e più che la mia risposta, "Solo te", ricordo che rimasi perplesso di me stesso per non essermi mai posto quella domanda. Eppure non mancano gli extracomunitari nella nostra provincia, ma, come accadono certi incontri, è difficile dirlo.
Ricordo che il discorso volò sulla nostra prima volta, assurda volta che non riporterò perché se in vita vostra avete visto film come "Il colore viola", o non avete ancora smaltito l’odio imprigionato in "Missisipi burning", sarei forse scontato. Vi basti sapere che il tutto si svolse in faccia a chi scrive, tra casa mia e casa sua ed era la realtà. Magari un giorno il mio amico ve lo racconterà, oppure io stesso, ma sarà una storia da non crederci. Piuttosto fidatevi di altro, di quando scrostavo con lo spazzolino impastatrici alle sei del sabato mattina e conobbi l’algerino Mustafà. Il classico gigante delle favole che agli stupidi pare stupido, ma ha solo un cuore grande come le spalle dove sopporta anche il peggio. Il resto della settimana asfaltava strade e con i pochi denti rimasti rovinati dal catrame stringeva una sigaretta dopo l’altra. Sorridendo mi proponeva di tornare con lui in Algeria, perché sognava il suo paese e ci sarebbe tornato con i soldi per piantare un piccolo commercio. Era un uomo come tanti. Amava sua moglie, impazziva d’orgoglio per il figlio e non così tanto per Allah. Si consumava qui per sistemare lì, un giorno, suo figlio. Qualche anno dopo lo ritrovo a bivaccare la vigilia di Natale fuori un bar tabacchi gestito da cinesi, pare non chiudano mai. Mi abbraccia, il nostro incontro gli smuove qualcosa in gola, nei polmoni, agitato tossisce un po’ di imbarazzo e morte e dice che forse quello era l’anno buono per ripartire e mi lascia un numero di telefono. L’Algeria è vicina, suggerisce. Vieni da me… E io non l’ho mai chiamato e chissà poi dove avrò messo quel pezzo di carta con il numero. In fondo, per me, non è stato nient’altro che uno straniero di passaggio in cerca di fortuna come altri più coraggiosi e molto diversi da me. Poteva essere mio padre per la generosità che si portava dentro, ma mi sono sempre giustificato così, troppo diverso da me. Per pigrizia. Paura recondita di quel che non è nel cerchio del ‘noi’ e, se non ci stai attento, invecchi che si restringe fino a soffocarti. Abitudine. Ai volti slavati che dicono le stesse frasi del giorno prima e non si rischia così di andar oltre quel poco che già si sa; certo, il lavoro, i soldi, la macchina a rate, ma come corre! Raramente il mutuo della casa che è impossibile, o stanca, anche sognarlo, il più delle volte il problema è una gonna maledettamente puttana solo perché non si alza facilmente, e se un ‘drink’ ti costa un’ora di lavoro è comunque un affare. Soddisfatto, almeno il ghiaccio era fresco, stringi la mano all’oste che ricambia con quel sorriso che dovrebbe farti dubitare su quanto sei imbecille. Assuefazione a domande del tipo: "Quel posto... Hai presente? C’è bella gente!", e definissero una buona volta "bella gente". Dipendenza dall’aperitivo di sempre, perfino al vino rancido di certe osterie che non ci fai più caso e brindi lo stesso alla quotidianità che spacca il minuto, spesso vuoto quando vedi il fondo del bicchiere, e che non basterebbe una bottiglia a riempirlo, fortuna che sei in mezzo alla gente, a tanta gente, che magari conosci soltanto due o tre dei soliti accampati in strada, ma che importa. Ci sei e il numero conta, se ti senti in perfetto tutt’uno col tuo mondo. Altri saranno sospettati di saluti di plastica eppure ricambi lo stesso, con altra plastica, altra spazzatura che sedimenta. Ma sei tranquillo. C’è un ordine lì nel mezzo al caos delle chiacchiere, un solo colore che è una garanzia di pulito e comprensibile, afferrabile, che ti par di conoscere tutti, anche se stai spasmodicamente cercando da un po’ d’incrociare un paio d’occhi noti, nella massa, per non far la magra figura da palo del tuo amico. E’ comunque la tua gente e questo ti rassicura anche se magari vorresti essere da un’altra parte e non solo per via della noia. Resti. Ipocrita.
Qui davvero non ha più senso Destra, non ha più senso Sinistra. Ci basta essere 'fashion' anche in politica, e non servono altro che i vestiti giusti. Siamo soltanto piccoli, ben inteso, nel nostro piccolo. Perché basterebbe guardarsi intorno e chiedersi dove siano nascoste le centinaia, migliaia, di extracomunitari di cui pure taluni vantano l’integrazione con una fascia tricolore stesa dalla pancia meglio che da una tromba di vento. Dove sono? Mustafà, dove ti sei cacciato? I poverini, gli sfigatini del sud del mondo e tutti e solo una categoria di ‘ini’ da compatire e salvare incondizionatamente, purché non escano della televisione, dal Tg e se ne occupi la polizia. Oppure, non fossero terroristi e galleggiassero nei pressi di Lampedusa, sono clandestini da rispedire al mittente, per non tenerci in casa altri occhi biechi che scruteranno il momento buono per derubarci e vanno sorvegliati a vista, sono quelli che attendono per ore, nelle stazioni, l’arrivo di oggetti già sospettati di non esser bene identificati.
Forse avrei dovuto scrivere delle circostanze hollywoodiane in cui conobbi Abballah, ma non siamo diventati famosi e lasciamo perdere. Probabilmente avreste pensato al mio amico come ad un poverino d’extracomunitario. Non farebbe per lui. Lui è buono, cattivo, poverino come tutti noi.
Soltanto, mentre bivaccate con il bicchiere in mano, a portata di bancone, dovreste chiedervi: dove sono loro? Perché non sono qui? Altrimenti ogni politica sarà salotto, chiacchiere per tergiversare sull’unica domanda che darebbe un senso all’integrazione, e fingiamo non sia una domanda, semplicemente non ponendola a noi stessi.

martedì 8 luglio 2008

Ad un amico lontano

Mi chiama per mettermi al corrente sullo stato della casa. Sono arrivati gli infissi e ora possono portar dentro divano e materasso. Io sono qui da qualche settimana e lui mi tiene aggiornato. Come spesso è accaduto, siamo lontanti e non si perde mai un palmo di quel filo che ci muove l'uno verso l'altro fin da ragazzi.

Per mancanza di tempo, per un certo riaffiorare spontaneo di vecchi ricordi, oggi lascio questa, scritta per un buon amico qualche anno fa.




Ad un amico lontano

In un vertiginoso terrazzo grigio
ai bordi di una campagna
sopravvissuta all'asfalto di periferia
Al caldo dei primi pomeriggi di quell’estate
all’ora d’ogni puntuale terremoto aereo
Ricordo finestre in agitazione permanente...
La scossa vibrava i mozziconi
accesi di noi due
seduti a corto di parole
a raccontare l’epilogo
del nostro primo disincanto
Nel vano tentativo d’afferrare un pretesto
per abbandonarci finalmente a guardare oltre
Al di là della balaustra
alle spalle del pensiero di tuo padre
Scrutavamo il tramonto del vecchio orizzonte
spegnere per sempre i suoi riflessi
su vetri di case accecate
socchiuse e stanche
per leggervi una sicura avventura
in un futuro assieme.
Capaci tuttavia di proiettare nella mente
quanto bastasse a rasserenare
i nostri occhi confusi
non sapendo esattamente
essi soli, dove puntare
Forse è lì che ci siamo conosciuti
In quel poggiolo ciondola ancora
quel che siamo io e te
Anche se tutto quello, allora
era quotidiana certezza
e adesso è lontano
abbandonato nel tempo
al ricordo d’un sogno remoto
E d'un tratto ti guardi attorno...
ti rendi conto d'essere piccola vela
in mezzo un mare di gente straniera
senza una mappa dei venti
a cui affidare anche pochi timori
La solitudine spenta sotto i lampioni
nei liquidi riflessi di un viottolo verso casa
placato il coito universale
in una sera qualunque, allegra
cessata la pioggia

sabato 12 aprile 2008

I Fantasmi sono tutti immigrati clandestini da cacciare?

Era un buon giocatore, uno di quelli che prendeva le speranze a calci per tirar dritto in porta. Niente falli, né ingiurie, solo tanta forza per correre veloce come gl’altri e molta determinazione. Lui, nato tra la sabbia che scotta come polvere di vetro nel deserto, costretto a vivere dilettante con la sua passione sigillata da una caviglia rotta tanto tempo fa, quella partita non se la sarebbe persa per nessun motivo. Italiani dal DNA griffato ‘razza Piave’ in campo mischiati a marocchini che anche sbiaditi dalla nebbia, e con la griffe riletta in un perfetto dialetto veneto, “ son marochìn”, tradiscono la loro sicura stirpe di “ vù cumprà ”, fin dal primo tentativo di spacciarti un clamoroso gol di mano per uno spettacolare guizzo d’arte povera alla Maradona…”Ze cussì beo che par fazile, no?”. L’erba è bagnata dall’aria spessa mattutina come si conviene da queste parti: si scivola. Uno sgambetto involontario e cade! Vola una bestemmia che riecheggia l’incipit di una chiamata muezzin, e precipita stridendo come un fulmine tra lo stupore generale, sopra l’antico codice di copyright per quella che fu la lingua, il vanto e la gloria di ogni buon druido emigrato quaggiù, nella fondo della padania del mito immortale. “Ciò, ma a che dio te te riferissi? No xe massa comodo imparar el veneto par no ciamar in causa el to Allah, e scomodar queo de altri!?!”. E lui, colto un po’di sorpresa: “No!No! Ma spero che no’l sia mai stato immigrato a Treviso, così no me capisce!”.
E tutti a ridere. Una mano tira l’altra e divertito, stupito quasi dalla sciolta normalità dello scambio d’opinioni, quello del Piave lo aiuta a rialzarsi. Il gioco riprende, e questa volta più leggero di prima, perché anche quella sottile, residua crosta di nebbia ghiacciata s’è infranta.
Lo ritrovo in panchina con il respiro grosso in gola e incapace di nascondere un riflesso malinconico negl’occhi: “ Perché le questioni tra noi non dovrebbero esser semplici come una partita a calcetto, intrecciarsi quasi per gioco come se non ci fosse nulla di fondamentale da capire a dividerci, ché le regole sono quelle, e valgono per tutti i giocatori? E i calci, involontari per inesperienza come questi?”. Abdallah purtroppo a volte sogna e stenta a crederlo, ma viene da molto lontano e, pure, senza biglietto. Da tredici anni è una tra le migliaia di ombre dentro ai piccoli capannoni industriali disseminati lungo l’indaffarata Pedemontana. Uomini dall’esistenza vampiresca, ombre sottili sotto i raggi a mezzogiorno delle luci al neon. Poi il sole li squaglia, scompaiono, e dove finiscano a nessuno importa mai! E’ l’immigrazione fantasma che infesta i nostri castelli, ci accompagna per strada con i sussurri delle leggende che, con il passare del tempo, tendiamo ad accostare alla realtà annullando, poco a poco, il vertiginoso abisso del giusto confine. Nei salotti della politica si discute di lager costieri, di legge Bossi-Fini, di maggiori controlli e pugni dal sapore rugginoso dell’età del ferro, ma dimenticano l’integrazione che non coagula. Casomai non fosse un terrorista o galleggiasse nei pressi di Lampedusa, l’immigrato è un clandestino, o uno che aspetta il momento buono per derubarti e va sorvegliato a vista, o uno che attende per ore nelle stazioni l’arrivo di oggetti già sospettati di non esser bene identificati. Tuttavia, se proprio è ostinato a considerarsi fortunato, si può candidare ad essere forza lavoro bipartisan, indispensabile a pulire i cessi dei nostri uffici. E noi in quegli uffici. Chiusi nelle fessure dietro le tendine. Nel fetido sospetto che potremmo saltar per aria da un momento all’altro. Mal che vada, quasi sicuramente, parteggia per Al Quaeda. E’ così!...tornerà a casa e pesterà a sangue la figlia che scoprirà con mezzo ombelico orribilmente troppo occidentale di fuori la maglietta. E’ marocchino, è certamente musulmano, non lo dice, ma pure lui è così. E se poi sei tanto sfortunato da frequentare un WC pulito da quello, magari sei un tipo sfigato davvero, e spieghi questa tua persistente inquietudine alla segretaria appena maggiorenne con quel culo che ti fa impazzire. Il pretesto per attaccar bottone è lì che tira lo sciacquone. Parti alla grande perchè sorride, ti conferma nei tuoi timori, anzi, è dell’avviso che se fosse per lei, piuttosto, la tazza del cesso l’abbraccerebbe volentieri con le proprie mani per disinfettarla come si deve. Che ragazza d’altri tempi! getterebbe al vento quel prodigio di manicure per salvarci tutti...Ma tu sei uno sfigato da pedigree e quella, appena a casa, ammazza a mestolate madre, padre e fratellino fuor di culla. Così l’è preso di fare quella sera dopo il tg. E’ pazza!?! Eppure che dolce era con te, normale. Una ragazza tranquilla come tante. Un culetto eccezionale mica per scherzo. Perduto... Te la saresti scopata. Anche adesso, se vale a dirlo! Sebbene omicida, plurima, dietro le sbarre...cose che succedono in fondo, seghe che ora vengono, ma domani è un altro giorno. Un altro lodevole culetto siederà laggiù; sperando porti nel curriculum anche due grosse tette, sta volta!...Quel marocchino invece...lo vedresti bene con in tasca un biglietto di sola andata per casa sua. Decisamente! Con lui oltre la porta non ti riesce di lavorar tranquillo come tutti. Normale e profittevole...Al diavolo il tizio barbuto che incontri la sera al bar, all’ora biologica dell’aperitivo. Che significa che dobbiamo assumerci la responsabilità del primo serio contatto con le migliaia di uomini, donne e giovani che lo cercano, per non credersi più ospiti, spesso indesiderati, in un paese a cui vorrebbero poter sentir d’appartenere almeno un po’?
-Loro sono, ospiti!- Eppoi la mena con il politichese sparando cazzate sull’Europa che è anche questo -Per la miseria!-, una via istituzionale alla creazione di un nuovo ambiente sociale allargato, dove le sacche del pregiudizio diffidente siano prosciugate per far posto a uomini con una famiglia sulle spalle! -Per dio! La madonna e tutti i messaggeri dell’apocalisse, quale pregiudizio?- Tasse da pagare, figli da iscrivere a scuola esattamente come capita a noi. E la politica dovrebbe servire noi come loro...Pazzo! Pazzo, lui sì! Pazzo idiota!

martedì 19 febbraio 2008

Beniamino Cazzugli part 1

Un’anticaglia di stoffa sessantottina, che chiamavano divano, esala per lui ricordi come la madre che non hai mai avuto. Cade nel suo ventre, pernacchioso nemmeno tanto, e se lo abbraccia tiepido uno sbuffo sonoro, mentre spiffera alla sua immaginazione ossidata vecchie storie di lotte politiche, bat- taglie per diritti minimi, e le riunioni, e le botte anche per niente. Un “Puff!” flatulento che forse farebbe non arrossire, ma quanto meno sorgere un dubbio dietro uno sguardo accigliato di un ospite alla prima volta…Insomma qualcosa che di certo non spiega un serio problema intestinale, ma lo lascerebbe supporre, alza il sipario sulle scene che -ahimè!- lui, giovane com’è, odora soltanto. A volte una mente abbandonata troppo a se stessa gioca brutti scherzi, è vero, ma la passione che cinquant’anni prima gonfiava cuori e polmoni di quelli come lui fino a scoppiare per mandare in scena ‘Il Cambiamento’, lui la respira davvero, e meglio che a leggerla in un romanzo, comodo e sognante sopra un divano di stoffa tappezzata di fiori e pelle colorata di un arcobaleno sbiadito. Singolare è che a lui, forse, gli par anche una scelta attiva. Come di premere sull’acceleratore, occhi chiusi, avanti, consapevole del rischio di uno scontro frontale contro i testardi che non comprendo- no che ad esser compagni si sta giusti nel solco dell’evoluzione. Come se le ipocrisie nei gangli arrugginiti del sistema le stesse affrontando seppur in minoranza e già sconfitto. Perchè era vero, associarsi ad un movimento come assumersi parte delle responsabilità degli avvenimenti che si preparano, diventarne creatori diretti. Unirsi, disciplinarsi per compiere un gesto d’indipendenza e liberazione, eccetera... La rabbia per chi resta. A casa. A studiare nel salone con i fiori centrotavola imparando a non odiare troppo le fatiche ataviche, ottuse, di mamma e papà, battute a martello sulla capocchia perché un lavoro sicuro nella vita è quel che ci vuole ed è proprio quel che conta. Così, adesso, anche un divano può divenire sudicio al punto giusto. Uno scrigno d’odori perduti tra le pagine di un diario che qualcun altro ha scritto.

Oggi è un giorno come ieri, inutile; e che a lui par d’aver vissuto fin da quando di muri da sventrare s’è convinto d’averne incontrati abbastanza. Niente più trama, niente più azione. Spalmato su quel divano di stoffa che ormai sbuffa solo un profumo acre di pastore tedesco fradicio, paglia ammuffita, vino rancido e solfato di rame, subito l’inghiotte una confortante aria fetale in un ricordo di cantina; sogna sbracciato, un po’ sindacalista circondato da contadini e operai all’osteria, segretamente rannicchiato, nel fondo del cuore, un po’ massone. Trascinatore sempre brillante, convincente sopra la massa rapita in milioni di parole che la incendiano...nella veranda di una casa limone che porta sul retro occupato, quasi per intero, da una certa folla sottile, a tratti agitata, di steli d’erba piegati dalla noia d’esser troppo cresciuti. Lì, per lui... A voi, l’ovvia impressione sarà d’un tetto che spiove una o due braccia sopra un divano pezzato da cinquant’anni vissuti altrove, all’estremo e ora, pensionato, al limitare d’un fitto muro verde d’erba gramigna e sorvegliato a vista dalla vecchia di fronte; ma invero, la fascia spazio temporale più desolata che Beniamino Cazzugli, docente di qualcosa in una facoltà di scienze politiche in qualcheddove, prossimo pure lui alla quarantina riesca a concedersi per pensare a quel che dice, e forse domani, dirà, è tutta compresa in quei metri stretti in un 3x2. Il frangente è una vita che ha smesso di scorrere. In questi casi, da noi si usa dire che uno non sa decisamente che cazzo afferrare. Eppure convinto, tre ore prima appena, prima di ritornare feto dentro un utero sepolto in cantina introduceva così le sue matricole al corso che iniziava << style=""> crisi... -Capite?- dice rivolto alla massa verde protesa verso il sofà; e migliaia di esili braccia si flettono al suo respiro -Una volta si sarebbero incazzati anche per l’esempio della pianticella...il sistema che pretendeva d’annacquargli il cervello con le solite favolette...mentre questi quando s’incazzano? magari vedono una foto di sangue, un bambino in lacrime, scendono in piazza certo, due passi e poi? Orgasmi senza nemmeno i preliminari! Lo studio, l’ascolto, lo scambio. Eccitazione da allarme rosso e vengono all’istante per la sigaretta dei soddisfatti...Scusate, ma di cosa? Del sistema che li osserva dalla finestra ai piani alti? Di essersi distinti per un nanosecondo da quel sistema che nutre anche loro?- Cessa il vento; dalla platea filiforme solo un lieve brusio d’attesa immobile –Ci siamo perduti il libretto delle istruzioni e nel passaparola generazionale il giocattolo s’è inceppato, ecco!... Troppo semplice dite? Beh, quando tento di spiegare che sarà loro responsabilità mandare avanti il sistema di tutta la baracca, infallibile come un cecchino uno delle file dietro alza la mano per avvisarmi che il sistema fa schifo...Bene! dico io. Allora toccherà a voi aggiustare il sistema –Ma è sporco, corrotto, noioso-, e che!?! Il meccanico forse si lamenta per del grasso sulle mani, o qualcuno osa dargli del corrotto se si unge per un motore rotto? Fa parte del lavoro, no?- E si spegne collassato. E’ sera, e la folla verde d’eccitazione resiste, è gramigna, e s’accampa per il prossimo discorso. Il momento della festa arriva, annunciato dal grillo, che alla prima luna prende a cantare.